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[OT] Attualità e Cultura
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Il Paese mormorò: facci del male

di Marcello Veneziani - 18 novembre 2011, 09:08


Ma cosa avranno da festeggiare i politici per il governo dei tecnici che è la certificazione della loro incapacità e del loro fallimento? Li vedi ridenti che dichiarano la loro felicità per il governo di alto profilo, e non si rendono conto di ammettere così che un governo di politici è per definizione di basso profilo e oscilla tra l’inutile e il dannoso.

È impressionante questo masochismo collettivo e trasversale nel riconoscere che finalmente non ci sono più loro a governare. Quasi a suggerire: noi governiamo per gioco, quando si fa sul serio vengono loro.

Grotteschi, per la verità, sono pure gli italiani che esultano dicendo: finalmente arriva un governo che ci farà davvero del male, ci squarterà vivi, ma seriamente, esigerà sacrifici umani e disumani. Fino a ieri non erano disposti a pagare Ici, tasse, patrimoniali, tagli alle pensioni e ora invece vanno allegramente al martirio con tanta ammirazione per il boia, solo perché è professore, uccide sì ma con professionalità.

Temo che i politici vogliano solo prendertempo e poi boicottare il governo nascente per riaccreditare il loro rientro. Ma l’alternativa che ora si prospetta è secca: se i tecnici fanno male la colpa sarà dei politici che ce li hanno messi o che non li hanno sostenuti in parlamento. Se fanno bene, renderanno superflui i politici. In ambo i casi, come si dice da noi, zompa il cocomero e va in faccia all’ortolano (non proprio in faccia, ma con i professori si parla in modo misurato). P.S.:Toccante il ritorno della Dc.Commuove sempre il rientro delle salme.


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http://blog.ilgiornale.it/foa/2011/11/19...on-si-puo/


19
NOV 11

Mario Monti continua a negare di essere un rappresenante dei Poteri forti; ieri ha sfioraro il ridicolo ricordano come l’Economist lo avesse definito il “Saddam Hussein del business Usa” per essersi opposto a Microsoft e Coca Cola quando era Commissario europeo. Frase ad effetto ma priva di fondamento.

Se fosse stato davvero Saddam Hussein avrebbe fatto un’altra fine, forse non così drammatica come quella del Raîs, ma oggi sarebbe un oscuro ed emarginato professore in pensione. Invece la Coca Cola che lui aveva “perseguitato” lo ha assunto come Consigliere, ma non è questo il punto.

Mario Monti non rappresenta i poteri forti, Mario Monti è parte costituente dei poteri forti. Monti è consigliere di Goldman Sachs (a proposito: ma si è dimesso?), è presidente della Trilaterale (ramo europeo), ha fondato il think tank Breugel di cui è presidente, è membro e assiduo frequentatore del Bilderberg. Naturalmente nelle biografie ufficiali scorda sistematicamente di ricordare la sua affiliazione alla Trilaterale e al Bilderberg. Perchè?

Altro che tecnico sobrio e neutrale, Monti è un uomo molto ambizioso che recepisce gli interessi di queste organizzazioni, le quali hanno forti interessi finanziari (Golmdan) o perseguono disegni non dichiarati e inquietanti. Su questi punti andrebbe incalzato dalla stampa e dal Parlamento; ma naturalmente questo non accade, se non marginalmente e con scarsa cognizione di causa da parte dei giornalisti.

Così Monti può perseguire i propri interessi, facendo leva sul sostegno dei compagni di cordata italiani .Ad esempio: oggi fa scandalo il bigliettino di Enrico Letta, nessuno scrive che Enrico Letta è un membro della Trilaterale, affiliazione che naturalmente il deputato Pd, come Monti, non rivendica nelle biografie ufficiali. Sapendo questo retroscena il suo gesto apparentemente ingenuo assume un altro significato

Perchè questa discrezione nei dirsi membri di Trilaterale e Bilderberg? Perchè questi misteri? Cosa aspetta l’opinione pubblica ad aprire gli occhi sul signor Monti e su Enrico Letta e su Mario Draghi e tanti altri venerati tecnici o addirittura padri della patria?

PS Un lettore di questo blog, Marco Saba, che ringrazio, segnala che Monti è anche membro Senior Advisory Council di Moody’s ovvero della principale agenzia di rating al mondo…


http://it.wikipedia.org/wiki/Commissione_Trilaterale


Commissione Trilaterale
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La Commissione Trilaterale, o, ellitticamente, la Trilaterale (in inglese, Trilateral Commission), è un gruppo di discussione (Think tank) non governativo e non partitico fondato il 23 giugno 1973 per iniziativa di David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e di altri dirigenti e notabili, tra cui Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski. La Trilaterale conta come membri più di trecento privati cittadini (uomini d'affari, politici, intellettuali) provenienti dall'Europa, dal Giappone e dall'America Settentrionale, e ha l'obiettivo di promuovere una cooperazione più stretta tra queste tre aree (di qui il nome). Ha la sua sede sociale a New York.
Quest'organizzazione fu fondata a motivo del declino, in quegli anni, dell'influenza del Council on Foreign Relations, un gruppo di studio (think tank) americano di politica estera, le cui posizioni sulla guerra del Vietnam erano divenute impopolari.
L'atto costitutivo spiega: «Sulla base dell’analisi delle principali questioni che interessano l'America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un'azione congiunta. I membri della Commissione comprendono più di duecento cittadini insigni, impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni».
Il numero dei membri provenienti da ciascuna delle tre zone geopolitiche (Europa, Giappone e America Settentrionale) è tale che la rappresentanza di tali zone è, in proporzione, sempre la stessa. I membri che ottengono una posizione nel governo del loro paese lasciano la Commissione.
La lista dei membri è pubblicata ogni anno. L'elenco completo può esser richiesto per posta elettronica attraverso il sito della Commissione.
Indice [nascondi]
1 Composizione
2 Teorie del complotto e critiche
3 Note
4 Collegamenti esterni
Composizione [modifica]

La composizione della commissione è proporzionale e suddivisa in tre aree. Il Nord America è rappresentato da 120 membri, l'Europa è rappresentata da 120 membri (di questi 20 sono tedeschi, 18 italiani, francesi e britannici, 12 spagnoli mentre i restanti Stati hanno tra 1 e 6 rappresentanti). L'area del pacifico è rappresentata da 117 membri.[1]

Tra i membri italiani si annoverano:


Mario Monti, presidente del consiglio dei ministri italiano nonché senatore a vita e presidente dell'Università Bocconi.[2]

John Elkann, presidente di Fiat SpA, Exor e della Giovanni Agnelli e C.[2]

Pier Francesco Guarguaglini, presidente di Finmeccanica.[2]

Enrico Letta, politico italiano e attuale vicesegretario del Partito Democratico.[2]

Carlo Pesenti, consigliere delegato di Italcementi.[2]

Luigi Ramponi, ex Comandante Generale della Guardia di Finanza e direttore del SISMI.[2]

Gianfelice Rocca, presidente del Gruppo Techint, vicepresidente di Confindustria.[2]

Carlo Secchi, economista e politico italiano.[2]

Maurizio Sella, presidente del gruppo Banca Sella.[2]

Marco Tronchetti Provera, imprenditore e dirigente d'azienda italiano.[2]


Teorie del complotto e critiche

Sebbene la Commissione trilaterale sia soltanto uno tra i tanti gruppi di discussione di destra e di sinistra, essa è presente in molte teorie del complotto.

Lo scrittore francese Jacques Bordiot affermò, riguardo ai membri della commissione, che "il solo criterio che si esige per la loro ammissione, è che essi siano giudicati in grado di comprendere il grande disegno mondiale dell'organizzazione e di lavorare utilmente alla sua realizzazione"

e che "il vero obiettivo della Trilaterale è di esercitare una pressione politica concertata sui governi delle nazioni industrializzate, per portarle a sottomettersi alla loro strategia globale".("Présent", 28 e 29 gennaio 1985). Non sono però specificate le fonti su cui il Bordiot avrebbe basato le sue opinioni.

Per altri la Trilaterale è semplicemente l'espressione di una classe privilegiata di tecnocrati: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto dove la téchne è legge e dove sentinelle, dalle torri di guardia, vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere la società di fronte a sé stessa. Il maggiore benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso» (Gilbert Larochelle, «L'imaginaire technocratique» Montreal, 1990, p.279).


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La fine dell'Italia


di David Gilmour 22 Novembre 2011

Perché dovremmo stupirci se l’Italia cade a pezzi? Con decine di dialetti e un’unificazione fatta in fretta e furia, si potrebbe persino dubitare che sia davvero una nazione. L’Italia sta cadendo a pezzi, politicamente ed economicamente.

Di fronte a una gravissima crisi del debito e alle defezioni dalla sua maggioranza parlamentare, il primo ministro Silvio Berlusconi , la figura politica che più ha dominato il panorama politico romano dai tempi di Mussolini, la scorsa settimana ha rassegnato le dimissioni. Ma i problemi del paese vanno oltre la scadente prova politica del Cavaliere, oltre i suoi celebri peccatucci: le loro radici affondano nella fragilità del sentimento di unità nazionale, un mito nel quale pochi italiani, oggi, mostrano di credere.

La frettolosa, forzata unificazione del XIX Secolo, cui nel XX Secolo seguirono il fascismo e la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, lasciò il paese privo del sentimento di nazionalità. Ciò non sarebbe stato di grande importanza se lo stato post-fascista avesse avuto maggior successo, non solo nella gestione dell’economia ma anche nel proporsi come un’entità in cui i cittadini potessero identificarsi, e avere fiducia.

Ma negli ultimi sessant’anni, la Repubblica italiana ha fallito nel fornire un governo funzionante, nel combattere la corruzione, nel proteggere l’ambiente, persino dal proteggere i suoi cittadini dalla violenza di Mafia, Camorra e altre organizzazioni criminali. Adesso, nonostante i suoi intrinseci punti di forza, la Repubblica si è mostrata incapace di gestire l’economia.

Ci sono voluti quattro secoli perché i sette regni dell’Inghilterra anglo-sassone diventassero, alla fine, uno solo, nel Decimo secolo. Ma quasi tutta l’Italia è stata riunita in meno di due anni, tra l’estate del 1859 e la primavera del 1861. Il Papa venne spogliato di quasi tutti i suoi domini, la dinastia dei Borboni venne esiliata da Napoli, i duchi dell’Italia centrale persero i loro troni e il re del Piemonte divenne re d’Italia.

In quel momento tale rapidità venne vista come un miracolo, il risultato di un magnifico insorgere patriottico da parte di un popolo che anelava ad unirsi e cacciare l’oppressore straniero e i suoi servi. Va detto però che il movimento patriottico che ottenne l’unificazione dell’Italia era numericamente piccolo, formato per lo più da giovani della classe media settentrionale; e non aveva alcuna possibilità di successo senza un intervento dall’esterno.

Fu l’esercito francese a cacciare gli austriaci dalla Lombardia, nel 1859; fu una vittoria della Prussia a far sì che l’Italia, nel 1866, potesse annettersi Venezia. Nel resto del paese, le guerre di Risorgimento non furono tanto una lotta per l’unità e la liberazione, quanto una successione di guerre civili. Giuseppe Garibaldi, che si era fatto un nome come soldato combattendo in Sudamerica, si batté eroicamente con le sue camicie rosse in Sicilia e a Napoli nel 1860, ma la sua campagna fu, in ultima analisi, la conquista del Sud da parte del Nord, seguita dall’imposizione delle leggi del Nord in luogo di quelle dello stato meridionale che allora esisteva, il Regno delle due Sicilie. Napoli non si sentì affatto “liberata”, soltanto ottanta napoletani si offrirono volontari per le camicie rosse garibaldine? e la sua gente non tardò ad amareggiarsi del fatto che la città aveva scambiato quello che da seicento anni era il suo rango “capitale del regno” con quello di località di provincia. Ancor oggi il suo status è minore, nel quadro di un Pil del Mezzogiorno pari a meno della metà del settentrione.

L’Italia unita ha saltato la fase, normale e faticosa, di “costruzione della nazione”, diventando subito uno stato centralista ben poco disposto a fare concessioni ai diversi localismi. Si faccia il paragone con la Germania: dopo l’unificazione del 1871, il nuovo Reich era governato da una confederazione che includeva quattro regni e cinque granducati. La penisola italiana, al contrario, venne conquistata in nome del re piemontese Vittorio Emanuele II e rimase una versione ingrandita di quel regno, esibendo lo stesso monarca, la stessa capitale (Torino), persino la stessa Costituzione. L’applicazione delle leggi piemontesi su tutta la penisola fece sentire i suoi abitanti più come popolazioni conquistate che come popolo liberato. Il sud venne attraversato da una serie di violente rivolte, tutte sanguinosamente represse.

Le diversità che attraversano l’Italia hanno una storia antica, che non può essere messa da pare in pochi anni. Nel Quinto secolo dopo Cristo, gli antichi greci parlavano la stessa lingua e si consideravano greci; a quei tempi, la popolazione dell’Italia parlava 40 lingue diverse e non aveva alcun senso di identità comune. Tali diversità divennero ancor più pronunciate alla caduta dell’Impero romano, con gli italiani che si ritrovarono a vivere per secoli in comuni medievali, città-stato e ducati rinascimentali. Questi sentimenti di campanile sono vivi ancor oggi: se, per esempio, chiedete a un abitante di Pisa: “di dove sei”?, lui dirà “sono di Pisa” o eventualmente “sono toscano” ancor prima di dire “sono italiano” o magari “europeo”.

Come scherzosamente ammettono molti italiani, il loro sentimento di appartenenza alla nazione emerge soltanto durante la Coppa del mondo di calcio, e solo se gli “azzurri” giocano bene.

La lingua è un altro indicatore delle divisioni italiane. Il celebre linguista Tullio De Mauro ha stimato che all’epoca dell’unificazione, solo il 2,5% della popolazione parlasse l’italiano, vale a dire, l’idioma sviluppatosi a partire dal fiorentino vernacolare con cui scrivevano Dante e Boccaccio. Anche se si trattasse di un’esagerazione e quella percentuale fosse pari a dieci, ancora così si avrebbe che il 90 per cento degli abitanti dell’Italia parlavano lingue o dialetti regionali incomprensibili alle altre genti della penisola.

Persino il re Vittorio Emanuele parlava in dialetto piemontese quando non parlava quella che era la sua lingua ufficiale, il francese.

Nell’euforia tra il 1859 e il 1861, pochi politici italiani si soffermarono a considerare le complicazioni derivanti dall’unire genti così diverse. Uno che lo fece fu lo statista piemontese Massimo d’Azeglio, che subito dopo l’unificazione avrebbe detto: “Ora che è fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”. Purtroppo, la via che più di ogni altra venne seguita per “fare gli italiani” fu quella di sforzarsi di fare dell’Italia una grande potenza, una potenza in grado di competere militarmente con Francia, Germania, Austria-Ungheria. Un tentativo condannato al fallimento, perché la nuova nazione era assai più povera delle sue rivali.

Per un periodo di novant’anni, culminato con la caduta di Mussolini, la classe dirigente italiana decise di costruire il senso di nazionalità che ancora mancava trasformando gli italiani in conquistatori e colonialisti.

Vennero spese grandi somme di denaro per finanziare spedizioni in Africa, spesso risoltesi in disastri; come ad Adua, nel 1896, dove un’armata italiana venne distrutta dalle forze etiopiche che uccisero in un giorno solo più italiani di quanti ne morirono in tutte le guerre risorgimentali.

Sebbene il paese non avesse nemici in Europa e nessun bisogno di combattere in nessuna delle due guerre mondiali, l’Italia entrò in entrambi i conflitti, in tutti e due i casi nove mesi dopo lo scoppio delle ostilità con il governo che credeva di aver individuato il vincitore al quale chiedere, in premio, annessioni territoriali.

L’errore di calcolo fatto ad Mussolini e la sua successiva caduta distrussero a un tempo, in Italia, il militarismo e l’idea di nazionalità.

Nei cinquant’anni successivi alla Seconda guerra mondiale il paese fu dominato dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista. Questi partiti, che ricevevano direttive, rispettivamente, dal Vaticano e dal Cremlino, non avevano alcun interesse nell’instillare un nuovo spirito di nazionalità, che prendesse il posto di quello naufragato nei disastri precedenti.

L’Italia del dopoguerra è stata, per molti versi, una storia di successo. Con uno dei ratei di crescita maggiori del mondo, si segnalò tra i paesi innovatori in campi pacifici e produttivi come cinema, moda, design industriale. Ma anche quei trionfi furono settoriali, e nessun governo è stato mai in grado di colmare il gap esistente tra nord e sud.
I fallimenti politici ed economici del governo non sono l’unica causa della malattia che oggi minaccia la stessa sopravvivenza dell’Italia. Alcuni difetti strutturali del paese sono intrinseci alle circostanze della sua nascita.

La Lega Nord, il terzo maggior partito politico italiano, secondo cui il 150° anniversario dell’unità d’Italia avrebbe dovuto essere materia più di lutto che di celebrazioni, non è soltanto una strana aberrazione. Il suo atteggiamento verso il sud, per quanto razzista e xenofobo, dimostra che l’Italia, in realtà, non si sente un paese unito.

Il grande politico liberale Giustino Fortunato era solito citare suo padre, secondo cui “l’unificazione dell’Italia è stata un crimine contro la storia e la geografia”. Credeva che la forza e la civiltà della penisola risiedesse in una dimensione regionale, e che un governo centrale non avrebbe mai funzionato.

Ogni giorno che passa, le sue idee appaiono sempre più esatte. Se per l’Italia c’è ancora un futuro come nazione unitaria dopo questa crisi, dovrà riconoscere la realtà di una nascita travagliata e costruire un nuovo modello politico che tenga conto del suo intrinseco, millenario regionalismo, magari non un mosaico di repubbliche comunali, ducati arroccati sulle montagne e principati; ma almeno uno stato federale, che rifletta le caratteristiche principali del suo passato.
Tratto da Foreign Policy
Traduzione di Enrico De Simone


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Il Prof più serioso d'Italia è già macchietta sul web


di Vittorio Macioce - 23 novembre 2011, 08:46


L’ultima è questa.«Monti è talmente istituzionale che quando è nato si è congratulato con la madre». Oppure questa. «Nella squadra di governo Di Paola, Cancellieri, Severino, Terzi, Fornero, Balduzzi, Clini, Milanesi, Giarda.

L’unico precedente simile è il Foggia di Zeman». Eccolo. Il premier bocconiano, con la sua truppa di professoroni, si sta lentamente guadagnando le attenzioni della satira. È il segno che ormai è davvero uno che conta. Che ci vai a fare a Palazzo Chigi se nessuno racconta barzellette su di te? Neppure una battuta, uno straccio d’aforisma. È come un giapponese che viene in Italia senza macchina fotografica. Non ha visto nulla.

Mario Monti è il vicino di casa che spunta inaspettato da chissà quale quartiere lontano. Nessuno lo conosce davvero bene, ma intanto lo salutano, sorridono, è un signore tanto distinto, davvero a modo, sembra una così brava persona. Intanto lo studiano,s’incuriosiscono, chiedono che fa. E’ un professore, anzi di più un rettore, scrive sul giornale, va tutti i giorni a messa e la domenica lavora. Ma in tv? No, no, in televisione non tanto.

Ecco così che piano piano in Italia si va sviluppando la «monteide», la narrazione del meraviglioso mondo del professor Monti, pardon rettore, e si inseguono gli aforismi, le battute di spirito, gli aneddoti, le curiosità, le manie, i caratteri del personaggio. Il nuovo vicino di casa è ormai uno di noi.

Sappiamo già quasi tutto quello che c’è da sapere.Non l’essenziale, ma i contorni gustosi. Il rettore è un loden verde.È british,parla english,legge economist, passa in Goldman, sente Obama, vede Merkel, saluta Sarkò. Il rettore è austero e serio, ma con la freddura in tasca quando serve.

È europeo, tanto europeo, molto europeo, solo la macchina è italiana perché fa rappresentanza. Monti consulta, Monti provvede, Monti stravede. Monti ha un biglietto d’ingresso pronto per il Quirinale. E intanto nei bar, negli uffici del quartiere, sul web, sui social network cominciano a raccontarlo così, un po’ sfottendolo, come si fa con le vecchie conoscenze. Il professore, pardon rettore, ovverosia il premier, è ormai uno di noi, quasi un amico. Si scherza sull’età. Dicono. «Monti ha cancellato il ministero della gioventù.

E ora al suo posto che c’è? Il ministero del “Ai miei tempi!”». Mario Monti è un predestinato. Arriva lui e i mercati scappano. Questo ci hanno raccontato e all’inizio gli italiani ci stanno credendo. Si sforzano. È un parafulmine. Subito arriva la battuta, questa davvero bella e sottile. «La crisi del ’29 fu risolta annunciando che nel ’43 sarebbe nato Monti». Micidiale.

La popolarità dei ministri non è certo quella di uno Scilipoti. Così qualche sferzata sul «chi è chi» dei vari professori è quasi scontata. Malignità. «La lista dei nuovi ministri dà un nuovo significato alla frase “ Lei non sa chi sono io”». Su Facebook un ragazzo scrive: «Mercati ancora incerti dopo la presentazione del nuovo governo. Certo, ci vuole un po’ di tempo a cercare su Wikipedia tutti quei nomi».

Non c’è dubbio che il governo tecnico piaccia alla Merkel. I tedeschi adorano il loden di Monti. Non a caso il ministro degli esteri della Germania ha dato il pieno appoggio al piano economico del nuovo premier. Subito. Prima addirittura che il piano fosse presentato. Una fiducia al buio.E allora c’è qualcuno che scherza così: «Nel governo due banchieri, un ammiraglio e un ambasciatore. Positive le prime reazioni della Prussia».

Il rettore e i poteri forti. «Quando Monti va a piazza Affari la scultura di Cattelan alza il pollice». Il rettore e le banche: «Cambia il governo in Italia: dal Pdl alla Bce». C’è lo spazio anche per il surreale, con una punta di fantasy: «I Monti? Sono i nascondigli preferiti dai Draghi». Ma più di tutto piace il Monti anti crisi. Solo il rettore poteva rassicurare tutti sulle sue ricette.

Niente più onorevoli e senatori, questa è la stagione dei tecnici. Il rettore ci ha provato, ma alla fine si è dovuto accontentare dei suoi amici di briscola.

Gli italiani ironizzano: «Monti rammaricato per l’assenza di politici. E dire che ha perlustrato tutto il Parlamento ». Come ha detto il giorno dell’insediamento? Servono sacrifici, non lacrime e sangue. Qualcuno a penna ha aggiunto: «Quindi soffrite pure, ma senza sporcare»


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Le due camerette degli onorevoli bimbi

di Marcello Veneziani - 25 novembre 2011, 09:15

Con una cravatta a stelle e strisce del Senato americano, gentilmente offertami da un senatore e malamente annodata su una polo, mi sono introdotto da extraparlamentare nel Parlamento.

Non ci venivo da tempo. Ho trovato un clima sorprendente che ho poi ritrovato nelle dirette tv dagli emicicli: le due Camere sembrano oggi due camerette dei bambini dove vivono, giocano, fanno i compitini numerosi bimbi. Asilo politico. Da quando c’è il governo dei tecnici, hanno smesso di essere e di sentirsi l’epicentro del conflitto politico, il luogo in cui difendere o offendere il governo.

È come se avessero tolto la spina al Parlamento, sia nel senso della corrente che della spina dorsale, e fosse caduta la tensione, il sonoro, le telecamere accese. Gli onorevoli bimbi sono come in pausa pranzo o negli spogliatoi, nell’intervallo o nella simulazione. Li hanno disinnescati e ora giocano a fare i parlamentari. I tecnici, tutti rispettabili babbioni in età grave, sono i loro tutori, genitori e professori.

E loro sono ridotti al rango di alunni. Ubbidiscono, votano e si affrettano, come esigono il collegio dei professori e il preside, il professor dottor commendator Napolitano. Vedono Schifani e Fini non più come presidenti ma come capoclasse e i leader di partito come bidelli, anzi personale non docente. Inutili come i bidelli odierni, passati da inservienti a inservibili. Le aule hanno perso le scorie politiche, le tossine ad personam e ubbidiscono ai professori, salvo pochi disadattati, detti secessionisti. La Camera dei Depurati.


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“Pareggio di bilancio, si parte malissimo”

L’onorevole Giorgio Stracquadanio ci scrive da Montecitorio

Ieri è iniziata alla Camera la discussione sulla riforma dell’articolo 81 e l’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione. Ed è iniziata nel peggiore dei modi. Intanto perché il testo che le due commissioni competenti – Affari Costituzionali e Bilancio – hanno adottato come testo base non contiene nemmeno l’espressione pareggio di bilancio. Secondo la proposta delle commissioni approvata con il voto pressoché unanime dei partiti, la Costituzione dovrebbe fissare l’obbligo per il Parlamento all’equilibrio di bilancio, un concetto ignoto alla dottrina economica e al diritto.

Come spesso accade lo Stato, il potere pubblico, riserva a se stesso quello che vieta a cittadini ed imprese. Provate a depositare in tribunale un bilancio di impresa in equilibrio come quello dello Stato italiano e vedete se non vi troverete dritti dritti alla sezione fallimentare.
Eppure questa discussione era iniziata il 14 agosto, con la convocazione straordinaria delle Commissioni Affari Costituzionali e Bilancio di Camera e Senato, alle quali l’allora ministro Tremonti aveva annunciato l’esistenza della lettera della Bce al governo italiano e la necessità di mettere mano immediatamente alla Costituzione per adempiere al patto Europlus approvato dai Capi di Stato e di Governo della zona euro nella riunione dell’11 marzo scorso, su impulso franco-tedesco, e condiviso dal Consiglio europeo del 24-25 marzo.

La straordinarietà degli eventi e della convocazione parlamentare poteva illudere sul fatto che il sistema dei partiti acquisisse consapevolezza del fatto che il fallimento politico rappresentato dall’enorme debito pubblico fosse innanzitutto conseguenza della scientifica elusione della disciplina di bilancio fissata dalla Costituzione, dove è scritto qualcosa che da più di quarant’anni non avviene, e cioè che “con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese” e che “ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.

Bastava sentire l’intervento di Peppino Calderisi per rendersi conto del fatto che il parlamento non ignora la propria responsabilità storica: “È indubbio che nelle intenzioni dei nostri padri costituenti l’articolo 81 avrebbe dovuto assicurare la naturale tendenza al pareggio di bilancio. Così, del resto, si espressero testualmente sia Ezio Vanoni, firmatario dell’emendamento che sarebbe poi diventato norma costituzionale, sia Luigi Einaudi. Peraltro, se assai rigorose furono le intenzioni dei costituenti, affatto diversi furono gli esiti dell’applicazione della previsione costituzionale. […] Tanti sono i modi con i quali sono stati aggirati i vincoli dell’articolo 81 della Costituzione: copertura delle leggi di spesa solo per il primo anno; l’indebitamento considerato come una forma legittima di copertura, legittimità sancita da una sentenza della Corte costituzionale, la n. 1 del 1966; sentenze della Corte peraltro che, in applicazione del principio uguaglianza, hanno esteso benefici ad una platea enorme di cittadini senza nessuna copertura finanziaria; finanziarie con deficit a doppia cifra negli anni Ottanta, anche superiori al 20 per cento del PIL, con le relazioni di minoranza dell’allora Partito Comunista Italiano che dicevano che queste finanziarie erano recessive; finanziarie modificate con i meccanismi degli emendamenti vol au vent di Cirino Pomicino, ma questa è già altra questione; finanziarie per le quali ogni navetta parlamentare costava dai mille ai duemila miliardi di lire, con emendamenti votati a scrutinio segreto”.

Eppure nella discussione di ieri questa ricostruzione storica veniva letta con tutt’altro giudizio di valore dal deputato del Pd, costituzionalista prodiano, Gianclaudio Bressa, che ha sostenuto la tesi sociale della sinistra (e non solo): “L’articolo 81 è stato scritto da Mortati e Vanoni con l’importante tutoraggio di Luigi Einaudi. Mortati e Vanoni erano due costituenti favorevoli all’introduzione in Costituzione dei diritti sociali, ma erano anche preoccupati per programmi realistici di attuazione degli stessi […] La definitiva riplasmazione dei principi dell’articolo 81 della Costituzione è stata opera, sul piano della dottrina negli anni Sessanta, di Valerio Onida, nel suo fondamentale libro Le leggi di spesa nella Costituzione. È cambiato il tempo e la cultura politico-economica. L’articolo 81 della Costituzione non intendeva incorporare il principio del pareggio di bilancio e nemmeno quello della tendenza al pareggio. La sua logica è rivolta a permettere una gestione della politica finanziaria statale, impostata dal Governo e consentita dal Parlamento, ma condotta in maniera ordinata secondo un piano prestabilito. La legge di bilancio ha un valore sostanziale, può disporre provvedimenti nuovi, incisivi sugli sviluppi futuri della finanza, e può prestabilire fondi speciali in previsione dell’approvazione di future leggi. I fondi non cadono sotto il divieto del terzo comma dell’articolo 81 della Costituzione di nuove spese, perché non predispongono una spesa attuale. Quando la copertura è garantita dai fondi speciali il quarto comma è rispettato. La copertura si fa sul disavanzo legittimamente. La sentenza n. 1 del 1966 della Corte costituzionale conferma la tesi di Onida. Questa diventa la lettura ortodossa dell’articolo 81 della Costituzione. Qui nasce il problema che porterà, alla fine degli anni Settanta, allo sfondamento sistematico del bilancio. Nel 1979 più del 40 per cento della spesa era finanziato con il ricorso al debito”.

Non c’è dibattito politico in cui non si affermi che il problema dei problemi è la dimensione del debito pubblico e la sua apparentemente inarrestabile tendenza a crescere. Il contatore del debito presente sulla home page di questo blog cerca di ricordarlo a tutti.

Eppure quando si tratta di predisporre una regola elementare di bilancio, quella del pareggio, il sistema politico cerca di scrivere norme di facile elusione. Come ha ben documentato Serena Sileoni nella audizione parlamentare e in un recente focus IBL (PDF), solo le proposte firmate da Nicola Rossi al Senato e Antonio Martino alla Camera sono in grado di determinare una effettiva disciplina di bilancio, con cui almeno stabilire criterio restrittivi e straordinari per contrarre debito. Esse inoltre hanno l’ardire di volere stabilire un limite alla dimensione della spesa pubblica in rapporto al Pil.

Oggi la Repubblica Italiana fagocita più del 50% della ricchezza prodotta dai suoi cittadini, con il risultato che si produce sempre meno ricchezza. Nicola Rossi e Antonio Martino hanno proposto di ridurre del 5% questo gigantesco importo, fissando al 45% (una percentuale comunque enorme) il limite alla spessa pubblica. Ma questa idea di ragionevole salute pubblica è stata del tutto espulsa – per ora – dalla discussione sull’equilibrio di bilancio.

Nelle prossime settimane si dovrà dare battaglia sugli emendamenti, per evitare che una riforma gattopardesca venga approvata, con il solo scopo di somministrare narcotici al popolo inquieto. Un piccolo drappello ha firmato la proposta di Antonio Martino, lo stesso piccolo drappello può avviare una battaglia parlamentare. E se non sarà possibile introdurre il principio del pareggio di bilancio e il limite alla voracità della Repubblica, allora è meglio non toccare nulla, altrimenti il debito potrebbe crescere più velocemente.


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SuperIci, Iva e patrimoniale Ecco la stangata di Monti


di Francesco Cramer - 28 novembre 2011, 08:20


Roma - Quali misure si celano dietro i Monti? Perché quattro giorni fa, durante il trilaterale Francia-Germania-Italia di Strasburgo, la cancelliera di ferro Angela Merkel ha definito perfino «impressionanti» le riforme del Professore? C’è qualcosa che non quadra nel decreto in arrivo il prossimo 5 dicembre: in primis il fatto che il premier italiano ancora non abbia buttato sul tavolo le proprie carte, preferendo farle sbirciare all’estero per rassicurare i partners europei.

Si smentisce categoricamente che Monti sia sceso nei dettagli del suo piano assieme a Merkel e Sarkozy, confermando gli impegni presi dal precedente governo italiano.

Ma se è così allora perché definire «impressionanti» i provvedimenti in arrivo e quindi dare un’apertura di credito al nostro Paese, preclusa invece all’esecutivo Berlusconi? In secundis, nel merito, in che cosa consiste la cura da cavallo che Monti si appresta a somministrare al malato Italia? L’impressione è che, al netto di un deficit di comunicazione da parte di palazzo Chigi, il governo abbia un jolly in tasca, capace appunto di «impressionare» chi ci osserva.

Da quel poco che filtra dal governo, Monti starebbe limando una manovra da 15 miliardi di euro. Se tutto va bene, però: ossia se la Commissione europea sarà lasca rispetto ai nostri obblighi, considerando la crescita da formica dell’eurozona. Ma questo si saprà soltanto domani e dopodomani, a seguito dei vertici dell’eurogruppo ed Ecofin di Bruxelles.

Dentro al pacchetto montiano ci dovrebbero essere il ritorno dell’Ici progressiva con la rivalutazione delle rendite catastali (sorta di patrimoniale mascherata che porterebbe in cassa 5 miliardi); l’aumento dell’Iva ordinaria (misura che vale dai 6 agli 8 miliardi); un più rapido innalzamento dell’età pensionabile; blocco dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione; una stretta all’evasione fiscale abbassando l’utilizzo del contante a 300-500 euro. Sono queste le misure «impressionanti» o Monti nasconde ancora qualcosa? Il giallo, ancora una volta, riguarda la spinosa questione della «patrimoniale»: parolina scivolosa che evoca un prelievo sul patrimonio.

Ma detta così vuol dire tutto e niente: chi colpire infatti? Un’ipotesi sarebbe quella di colpire solo i proprietari di beni immobili dal valore superiore al milione di euro.

Ma il premier tiene i suoi piani ancora coperti dal segreto. Per ora. Nei prossimi giorni infatti il presidente del Consiglio dovrebbe incontrare separatamente i leader dei partiti che lo appoggiano per descrivere in che misura ferirà i rispettivi elettorati.

È stato il leader del Pdl Alfano ad annunciarlo: «Mi ha chiamato Monti e con garbo e cortesia mi ha detto di aver tirato giù le linee guida del programma economico del governo». E ancora: «Mi ha detto: “prima di mandarle in consiglio dei ministri gradirei parlare con te, con Casini, con Bersani e con quanti sostengono il governo, separatamente, per concordare i punti di intesa e di dissenso».

In ogni caso il sentiero attraverso cui si sta muovendo Monti è stretto e irto di insidie. Raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 è l’obiettivo ma se per arrivarci occorre spremere a più non posso un Paese che ha già il primato delle tasse si rischia di accelerare la recessione.

Ecco perché Monti, ai prossimi vertici di Bruxelles, proverà a chiedere di rimodulare il concetto di deficit, tenendo conto della crescita da formica dell’eurozona. Se i partners dovessero rispondere «picche» la manovra rischia di essere ancora più salata rispetto ai 15 miliardi previsti. Altro pericolo è la speculazione finanziaria che sembra non terminare mai e che fa schizzare in alto lo spread: ossia gli interessi che l’Italia dovrà pagare a chi sottoscrive titoli del nostro debito pubblico.



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Sorpresa, nuovo ministro alla Funzione pubblica Polemica sui sottosegretari


di Massimiliano Scafi - 29 novembre 2011, 08:10


Roma - C’è Grilli al Tesoro, c’è Ciaccia alle Infrastrutture. C’è anche il «politico» D’Andrea ai rapporti con il Parlamento, decisione che provoca subito polemiche.

Ma, sorpresa, c’è soprattutto un nuovo ministro, Filippo Patroni Griffi, presidente di sezione del Consiglio di Stato, che avrà la delega alla Funzione pubblica. Una nomina concordata nel pomeriggio al Quirinale, durante un incontro in cui Monti ha spiegato a Napolitano gli interventi che sta per varare e quello che sta per prendere l’Europa.

Si allarga dunque il governo del professore: adesso è un gruppo di diciotto persone.
Un parto travagliato, estenuante. Difficoltà fino all’ultimo, con il premier costretto a rimandare di un’ora e mezzo il Consiglio dei ministri, previsto alle 19 e chiuso solo verso le nove di sera. Ma alla fine, ecco completata la squadra: un ministro, tre viceministri, 25 sottosegretari. «Tutti bravi, tutti tecnici», dice Andrea Riccardi lasciando Palazzo Chigi. In realtà non è proprio così. Oltre alla scelta di Patroni Griffi, in nome più «pesante» è quello di Vittorio Grilli, direttore generale di Via XX Settembre, a lungo in corsa per la Banca d’Italia e ora, dopo lunghi tentennamenti, promosso viceministro del Tesoro: la sua situazione, pare, si è sbloccata dopo che rinunciato al doppio incarico e al conseguente doppio lauto stipendio.

Accanto a lui, i sottosegretari Vieri Ceriani e Gianfranco Polillo reggeranno le Finanze e il Bilancio.
Gli altri due viceministri sono Michel Martone, docente della Luiss, al Lavoro e Mario Ciaccia, leader della banca Biis, alle Infrastrutture. Scelte di profilo pure per la Farnesina: Marta Dassù, direttore generale dell’Aspen Institute, e Staffan de Mistura, alto funzionario dell’Onu: ma il suo passaporto svedese potrebbe essere un ostacolo. Andrea Zoppini e Salvatore Mazzamuto andranno invece alla Giustizia. Carlo De Stefano, Giovanni Ferrara e Saverio Ruperto andranno al Viminale.

Claudio Vincenti e Massimo Vari saranno i sottosegretari alla Sviluppo economico, Elena Ugolini e Marco Rossi Doria quelli all’Istruzione, Filippo Milone e Gianluigi Magri quelli della Difesa.
Carlo Malinconico, presidente della Fieg, avrà la delega per l’editoria. Paolo Peluffo, consigliere della Corte dei Conti, portavoce di Ciampi a Palazzo Chigi e al Quirinale, quella della comunicazione e dell’informazione. Franco Braga sarà sottosegretario alle Politiche agricole, Tullio Fanelli dell’Ambiente, Guido Improta delle Infrastrutture. Alla Salute andrà Elio Cardinale, ai Beni culturali Roberto Cecchi.

I rapporti con il Parlamento, considerato da Monti un ruolo chiave per cercare di andare d’accordo con i partiti, saranno tenuti da Antonio Malaschini, consigliere di Stato, e da Giampaolo D’Andrea, ex deputato Dc, ex ministro del governo Prodi. Maurizio Gasparri non ci sta: «È frutto di un’ostinazione, avevamo chiesto al premier di non inserire nella lista esponenti che fossero di diretta emanazione dei partiti e non è stato così, si è violato un principio a cui tutti si eravamo pubblicamente richiamati. È un equivoco da cancellare. Ci aspettiamo un gesto di coerenza, proprio per migliorare i rapporti tra governo e Parlamento».

Stamattina la cerimonia del giuramento. Il negoziato è sembrato infinito, fino all’ultimo Monti ha tenuto la pratica aperta per correggere e limare l’elenco del sottogoverno. È arrivato puntuale a Palazzo Chigi, intorno alle 19, ma si è dovuto chiudere nel suo studio per i ritocchi finali, con i ministri lasciati in attesa e il toto-sottosegretari che impazzava.

Poi, una volta fatte le scelte, la procedura delle nomine, in sé per sé, non è durata tanto, è bastata una mezz’ora.

Il presidente del Consiglio ha chiamato uno ad uno i componenti del suo governo per spiegare le sue decisioni e sottolineare l’esigenza di mantenere snella la squadra e di non poter accontentare tutte le richieste. Infine davanti a tutti ha letto l’elenco: «Adesso - ha osservato Mario Monti -, potrete lavorare al meglio, dobbiamo superare le difficoltà tutti insieme e portare il Paese fuori dalla crisi».

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Complotto delle banche Il video choc di Monti che spopola sul web


di Chiara Sarra - 29 novembre 2011, 14:37


"L'Europa ha bisogno di gravi crisi per fare passi in avanti", cioè di "cessioni di parti di sovranità a livello europeo". A parlare è il premier Mario Monti quando era il presidente della Bocconi.

Il video integrale è stato pubblicato a febbraio sul canale YouTube dell'università Luiss, ma il passo "incriminato" è stato isolato dall'utente Romaunita e sta avendo molta risonanza sul web tanto da essere rilanciato anche da Roberto Castelli, ex viceministro alle Infrastrutture e trasporti, sulla sua pagina Facebook.

L'ipotesi quindi è che la crisi sia stata creata ad hoc dai banchieri per avere un'Europa più unita. Del resto, Monti lo dice chiaramente: "Quando la crisi sparisce rimane un sedimento per cui non è pienamente reversibile". Inoltre il presidente del Consiglio solo qualche mese fa era convinto che nel Vecchio continente ci fossero "troppi governi che si dicono liberali e che come prima cosa hanno cercato di attenuare la portata, la capacità di azione, le risorse e l’indipendenza delle autorità che si sposano necessariamente al mercato in un’economia anche solo liberale". Questo prima che la pressione dei mercati portasse a un cambiamento in Grecia, Spagna e Italia.

Queste frasi - ascoltate a mesi di distanza e estapolate dal contesto - fanno riflettere e non sono pochi quelli che, nei commenti al video originale, nei post su Facebook o su blog e siti di controinformazione, stanno urlando al complotto. Altri, più pacatamente, rimettono in discussione l'idea stessa di Unione europea, un tema che diventa sempre più centrale da quando la crisi dell'euro ha iniziato ad essere più pressante.

http://www.ilgiornale.it/video/il_video_..._sovranita

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