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[OT] Attualità e Cultura
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RE:   [OT] Attualità e Cultura

Cher ha Scritto:



Mi permetto, di segnalare che in questi giorni l'anniversario della battaglia di Lepanto, naturalmente ignorato da tutti e un pò di curiosità avrebbe dovuto destarla visto la storia d'Europa e della stessa Italia è in questa battaglia lo possiamo definire lo spartiacque della nostra civiltà.

Riporto una riflessione a firma di Francesco Pugliarello.


Riflessioni sul 440ennale della Battaglia di Lepanto, più che mai attuale


di Francesco Pugliarello 9 Ottobre 2011



Ricorre il prossimo 7 ottobre il 440ennale della più grande battaglia navale che la storia del mediterraneo ricordi, essa rappresenta la resa dei conti tra due civiltà e due religioni, sia per lo straordinario schieramento di forze impegnate in mare sia per l’importanza strategica economica e culturale dell’epoca.

E’ la battaglia di Lepanto (1571) tra le flotte navali musulmane dell’impero ottomano e quelle cristiane, detta “Lega Santa”, federate sotto le insegne pontificie, composta pressoché da quasi tutti gli stati cristiani sparsi in Europa e nella nostra penisola. Fu una carneficina che sancì la fine della supremazia ottomana nel “mare nostro” e l’inizio della fine delle mire espansionistiche islamiche verso l’Europa che da alcuni anni aveva registrato lo sgozzamento di centinaia di cittadini innocenti ad Otranto, il porto ambito dai razziatori di professione dell’epoca. Ancor oggi ogni anno nelle sale vaticane, per commemorare quell’evento, si riuniscono i discendenti degli “eroi di Lepanto”.

E noi, uomini contemporanei, alle prese con problemi per certi versi simili a quelli di un tempo, siamo pronti a fronteggiare un’eventuale offensiva destabilizzatrice come quelle subite a Parigi nel 1995, a New York nel 2001, a Madrid nel 2004 o a Londra nel 2005? Come gli struzzi, ci apprestiamo a trattare con costoro, snaturando od occultando le nostre gloriose tradizioni nella speranza di non urtare la suscettibilità di quei “signori” che proclamano apertamente la riconquista dell’Occidente con l’inganno e con le intimidazioni. Come abbiamo fatto con il crocifisso, rimosso da alcune scuole e dalle Case comunali della sinistra, così abbiamo fatto con la famosa tela attribuita forse al Veronese che evoca la battaglia di Lepanto.

Qualcuno ricorderà che i primi di aprile del 2007 fu rimossa per ordine dell’ineffabile ex presidente Bertinotti dalla sala di Montecitorio, dove vengono accolte le delegazioni straniere e riposta in un luogo ad essi inaccessibile. Di questi gesti scellerati pochi si sono ribellati. Una scelta quella di togliere il quadro forse non casuale… Un assessore leghista in quell’occasione diede un’interpretazione alquanto maligna di questo infausto gesto.

Secondo Stefano - è il nome con cui si firma in un blog – “E’ accaduto proprio quando il consiglio regionale del Veneto ha votato all’unanimità riconoscendo la lingua VENETA come lingua ufficiale di un popolo. Proprio in quei giorni Napolitano era in visita proprio in Veneto e parlava di necessità di FEDERALISMO, appena rientrò a Roma con decreto flash fece riconoscere la lingua italiana come la sola ed ufficiale dello Stato, Bertinotti fece il passo successivo tegliendo il quadro, offendendo la storia della Repubblica Serenissima, dell’Italia tutta, ma quel che più appare è una forte azione razzista nei confronti del popolo Veneto…”. Dal versante cattolico Antonio Socci ironicamente si domanda: “Perché la vittoria militare del 25 aprile deve essere ricordata con una festa nazionale e quella di Lepanto imbarazza perfino una tela? Forse perché la prima fu una vittoria (anche) dei comunisti, mentre quella di Lepanto fu una vittoria tutta cristiana sulla minaccia islamica. Dunque via la tela. Così – fa sapere Bertinotti – “si è voluto mandare un segnale di novità e diversità”.  

L’importanza di questo evento merita un ulteriore cenno retrospettivo, che riprendiamo dalle cronache dell’epoca. Il terrore musulmano, allora come oggi, regnava nel Mediterraneo: l’antico Mare nostrum. La sorte dei cristiani di Cipro era simile a quella che i novelli imam, con le loro prediche, nel chiuso delle madrasse (scuole coraniche), vorrebbero riservarci a noi “infedeli”: quando cioè l’Islam si stava preparando alla “reconquista” (caduta di Granada) su tutta l’Europa.

Sulla cattedra di Pietro sedeva un teologo domenicano, con il nome di Pio V (il Papa santo del Rosario), il quale, valutando la gravità del momento, comprese che solo una guerra preventiva avrebbe salvato l’Occidente.

Con parole gravi e commosse esortò le potenze cristiane ad unirsi contro gli aggressori in difesa della cristianità. La gravità era dovuta al fatto che l’espansione dei turchi si andava sviluppando anche grazie alla complicità di alcuni Paesi cristiani, come la Francia che, in nome dei suoi interessi geopolitici, incoraggiava e finanziava i turchi per indebolire il suo tradizionale nemico: la casa imperiale d’Austria.

Tuttavia grazie alle insistenze del pontefice, il 25 luglio del 1570, Venezia e la Spagna si strinsero attorno al Papa concludendo l’alleanza contro i turchi. Subito dopo vi aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, Parma, Urbino, Ferrara e l’Ordine sovrano di Malta.

Si trattava di una prefigurazione dell’unità italiana su basi cristiane, vale a dire la prima coalizione politica e militare italiana che la storia ricordi.

Con ciò non si vuole incitare alla guerra di religione o di civiltà ma ricordare all’opinione pubblica che il nostro passato non ci consente di abbassare la guardia per nessuna ragione, fosse anche di sopravvivenza finchè circolano indisturbati in Occidente ed in Europa in particolare, fondamentalisti che si spacciano per pacifici salafiti o addirittura maestri sufi.
Perché rischiare la clandestinità quando sul vecchio Continente vi sono giovani provvisti di passaporto comunitario liberi di circolare indisturbati e pronti a tutto? Sono i figli degli immigrati di seconda generazione, forniti di una nuova identità, di rientro dalla penisola araba istruiti alla dissimulazione sotto stretto controllo delle scuole coraniche degli imam più estremisti.

I servizi segreti francesi (Dcse) precisano che provengono dalle madrasse di Damaj, un sobborgo posto a Nordovest dello Yemen in una vallata prossima al confine con l’Arabia Saudita, frequentate da migliaia di aspiranti terroristi provenienti da tutto il mondo anche dall’Europa, principalmente dalla Francia e dalla Gran Bretagna.

Da quel sobborgo, non sospetto fino ad oggi, vengono preparate le “più intransigenti reti jahdiste armate” da inviare in Iraq, in Afganistan e dove c’è un qualunque focolaio di “resistenti”. Al momento si contano sulle dita della mano, ma quanto prima, secondo queste informazioni, saranno centinaia, pronti a scorazzare in lungo e in largo sul nostro Continente. Se questo è il quadro dello spostamento progressivo del fronte del terrorismo internazionalista islamico che, come sappiamo, punta a destabilizzare i legittimi governi delle ex colonie francesi, è da tempo che si reclama una presa d’atto dell’Unione Europea perché partecipi con aiuti concreti alla politica migratoria verso tutti quei Paesi che si affacciano sulla fascia mediterranea.



Riporto integralmente il "Manifesto" redatto dalla Università di Salerno sulla Dis-Unità del nostro paese.
Il documento è una indicazione per lo svolgimento del Congresso di Dicembre al Maschio Angioino di Napoli.
Potete prenderne atto e porre le vostre riflessioni.

Convegno Internazionale


LA DIS-UNITA’ D’ ITALIA E DELLE ALTRE NAZIONI:
SPINTE DISGREGATRICI E NUOVI MITI DI RIFONDAZIONE IDENTITARIA

(9-11 dicembre 2011)

L’ iniziativa del convegno ha trovato uno stimolo nella disaffezione diffusa tra la gente comune all’ idea della patria e nell’ aggressività di alcuni movimenti federalisti, che sembrano mettere in discussione l’ idea di nazione italiana, come organismo collettivo produttore di programmi e valori condivisi e come senso di appartenenza capace di destare emozioni. Il punto di partenza – che può diventare, a un livello più elevato di consapevolezza, il nostro punto di arrivo - è la constatazione che il riproporsi, al di là delle opinioni dei partiti e dei politologi, di spinte autonomiste o comunque di una insofferenza alla retorica patriottica tradizionale, pur con numerose contraddizioni e forti resistenze e controspinte, consente di ipotizzare un percorso multilineare, realistico e mitopoietico, che porti alla costruzione e all’ accettazione di diverse rappresentazioni della nazione italiana e della sua storia e fare del loro reciproco riconoscimento e coesistenza un valore condiviso e perciò un punto di forza. Sulla disaffezione soprattutto delle ultime generazioni al’ idea di patria e alla solidarietà nazionale non risultano effettuate ricerche empiriche vaste e approfondite, ma esistono spie significative, come quelle linguistiche: l’ Italia accoglie nel suo lessico più anglicismi della Francia e della Spagna, alle quali un forte orgoglio nazionale fa operare una più stretta sorveglianza sui confini della lingua. La Spagna in particolare si serve dei quotidiani per insegnare come evitare di imbarbarire la lingua nazionale e la Catalogna gioca la carta della difesa della lingua catalana per rafforzare la propria autonomia dalla Spagna.
Poiché la costruzione della nazione è in parte il portato della storia, in parte è opera dei gruppi dirigenti, si impone forse la necessità di uno sguardo sul passato italiano, per domandarsi se questa disaffezione abbia origini remote e la si debba ricercare nella pluridecennale mancanza di unità delle forze politiche. Forse è necessario interrogarsi se questa vicenda di lacerazioni che ancora segna la vita italiana non venga da più lontano, almeno dai particolarismi medioevali e dalle lotte interminabili che essi produssero, se non si obiettasse che anche altre nazioni europee hanno conosciuto esperienze di tipo analogo, che non hanno sortito effetti simili ai nostri. Ma certamente gli italiani, una volta realizzata tardivamente l’ unificazione nazionale, nell’ ultimo secolo e mezzo hanno visto i cattolici per lungo tempo fuori dello Stato, anarchici e comunisti contro l’ assetto politico liberale, fascisti contro i liberali e i comunisti, comunisti e socialisti contro i democristiani e così via.
Occorre domandarsi se queste lacerazioni abbiano reso difficile dare un volto unitario o conferire una “somiglianza di famiglia” a tutti gli italiani, che prima dell’ unità erano popoli diversi, con accentuate diversità regionali al loro interno, con diverse storie, diverse culture e diversi livelli di sviluppo, e che hanno conservato molte delle caratteristiche originarie almeno fino al secondo dopoguerra. Il modello giacobino di Stato adottato dalla classe dirigente dopo l’ unificazione e condiviso pressoché da tutti gli schieramenti politici fino ai nostri giorni, nonostante le scelte accentratrici (solo mezzo secolo fa mitigate da autonomie regionali di facciata), non è stato tanto forte da distruggere quelle diversità, né tanto debole da consentire che esse prevalessero al punto da ispirare una trasformazione dell’ accentramento amministrativo nel senso di un federalismo democratico.
La risposta che la classe politica sembra decisa a dare all’ esplosione odierna delle spinte autonomiste coincide in larga misura con quella indicata dagli autonomisti sin dagli anni del Risorgimento: il trasferimento di parte della sovranità dallo Stato ai comuni e alle regioni, in base a quello che oggi si chiama “principio di sussidiarietà”, che assicura ai diversi livelli di autorità le competenze che sono adeguati a svolgere. Questo trasferimento avrebbe consentito di realizzare una compiuta democrazia, fondata sul governo diretto dei municipi, e avrebbe garantito le diversità e assicurato alla nazione una unità reale, sulla base di un consenso che partiva dalla gente. Fino a qualche decennio addietro il federalismo era sopravvissuto come una idea perdente, e Bobbio ne attribuiva la causa al fatto che fosse sostenuto da pochi politici che vedevano troppo vicino e da una minoranza di intellettuali che guardavano troppo lontano. In realtà il federalismo non ha vinto perché la classe politica ha scelto di rimanere fedele per centocinquanta anni al modello giacobino, autoritario e accentratore.
La ricerca antropologica ha dato un contributo importante alla conoscenza della alterità costitutiva della nazione italiana: scegliendo di circoscrivere il loro campo di indagine al comune o alla regione, folkloristi, storici delle tradizioni regionali, dialettologi hanno rappresentato le diversità interne a una società che si raffigurava solidamente identica nelle sue parti, e lo hanno fatto a volte con una piena consapevolezza delle identità locali, fino a maturare idee autonomiste e a difendere le specificità locali da forme di colonizzazione culturale. L’ assenza degli antropologi dal dibattito contemporaneo sulla crisi identitaria italiana e sulla soluzione federalista rappresenta un elemento vistosamente negativo nella storia degli studi antropologici italiani e contraddice uno degli elementi più peculiari della nostra tradizione scientifica. L’ antropologia potrebbe, tra l’ altro, fornire una base empirica all’ attuale dibattito, che rischia di rimanere su un astratto livello politologico e giornalistico, sottraendo agli “opinionisti” tematiche e questioni di vitale importanza per il futuro della nostra società.
La situazione attuale ci induce ad approfondire il fenomeno dell’ invenzione di nuove tradizioni, che funzionano come riferimenti mitici e strumenti di legittimazione delle tendenze separatiste, autonomiste, antiunitarie, federaliste: le radici celtiche e asburgiche della Padania, il Meridione preunitario del movimento filo borbonico, l’ epopea brigantesca e la “cultura meridiana” di gruppi intellettuali del Sud, le evocazioni autonomiste della Sicilia e della Sardegna, il “ritorno” del Veneto alla Repubblica di San Marco. Non potranno ovviamente essere trascurati il diverso peso delle nuove mitologie, ed il loro diverso radicamento nella realtà popolare delle regioni italiane, nell’ ovvia impossibilità di confondere, per esempio, il tradizionalismo filoborbonico, che rivendica l’ onore offeso di Sud, con i miti e riti della Lega Nord, che, pur nella loro estrema semplificazione problematica, conferiscono forza e potere di coinvolgimento delle popolazioni lombardo-venete e legittimano un modo nuovo di fare politica e amministrare le città, nonostante alcune chiusure etnocentriche e derive xenofobe e neorazziste.
E’ superfluo ricordare che una significativa anticipazione delle mitologie autonomiste, sorta in opposizione ai miti cesarei della Roma imperiale e delle politiche di accentramento, si ritrova in una tradizione storiografica minore, che ha acquistato una certa consistenza a partire dal secondo Settecento, che vedeva il nucleo originario della nazione italiana (sangue, lingua, istituzioni) nei municipi liberi e autonomi dell’ Italia preromana, uniti in una confederazione. Forse una riflessione su questa storiografia mitologizzata può restituire una profondità storica insospettata a fatti contemporanei.
Non sembra condivisibile la tesi i secondo cui una politica nazionale troppo disposta verso gli immigrati e ideologicamente multiculturale incoraggi inevitabilmente gli atteggiamenti di chiusura e le derive xenofobe delle spinte autonomiste. Sarebbe, questo, un aspetto di una tesi più generale, secondo cui la paura dello straniero, sia quella che accompagna i fenomeni immigratori, sia quella che segna la compresenza delle etnie viciniori nelle aggregazioni multietniche, tenda a trasformare le società aperte in società chiuse. E’ comunque ragionevole pensare che, laddove non fosse ispirata da sani principi democratici, la spinta autonomista potrebbe trasformarsi in localismo centralista capace di escludere gli estranei e costringere le minoranze esistenti al loro interno all’ assimilazione o alla marginalizzazione. Ce lo insegnano i genocidi dell’ ex Jugoslavia o la xenofobia della Padania.
Il convegno assumerà anche il problema di come la gente comune interpreti la storia che ha portato all’ unificazione nazionale, per verificare fino a che punto le varie forme (estremiste, moderate, mitologiche, realistiche ecc.) di revisionismo critico o antiunitario si siano tradotte o meno in un modo comune di sentire, come effetto della loro diffusione attraverso la scuola, i mass media, i giornali, l’ informatica e l’ editoria. Si tratta di verificare quello che rimane dopo la distruzione della retorica risorgimentale, che aveva costruito l’ identità nazionale su deformazioni, silenzi e omissioni, e chiedersi se esistono gli elementi per la costruzione di una diversa immagine della nostra storia identitaria.
La rilettura critica del Risorgimento non può non approdare a una nuova immagine della nazione, evitando di opporre al negazionismo uno sterile nichilismo. L’ identità nazionale si riscrive ogni volta che l’ emergere di nuovi valori obbliga moralmente a fare i conti col proprio passato: se i nostri valori emergenti sono la difesa delle diversità, la trasparenza, la democrazia, la tolleranza, la solidarietà, ha forse poco senso accettare e legittimare (quando non si riesce più a nasconderle) quelle che a molti ormai sembrano le “turpitudini” del passato, invece di fare i conti con esse, e, per esempio, come sta facendo in molti casi la Chiesa, vergognarsene e chiedere scusa a chi le ha subite. Non facendolo, si perpetuano forse fino a un punto critico lacerazioni storiche e si alimenta un vittimismo e un rivendicazionismo da esclusi, che nuoce alla coesione nazionale.
Sul versante teorico non si potrà evitare un confronto costruttivo, per i nostri approfondimenti, con la ormai consistente letteratura sulla “fine delle nazioni” , né con quella che insiste sul rafforzamento delle domande delle periferie (alle quali può essere assimilata per certi versi la condizione di alcune regioni italiane) come effetto della capacità delle rappresentanze di influenzare i processi di distribuzione delle risorse; o con quella ancora che approfondisce il rapporto estremamente complesso tra domande territoriali e identità etniche. Si approfondiranno insomma gli effetti della globalizzazione sulle culture locali, con la corrosione delle frontiere dello Stato-nazione prodotta dai flussi di informazione su scala globale.
Dovremo al tempo stesso chiederci se la “fine della politica”, la fuga dai partiti, dall’ azione collettiva, dal progetto, e, complementarmente, la “liberazione” dell’ individuo, che sembra ora godere di una libertà svincolata da radici, fini, relazioni, abbiano giocato un loro ruolo in questa dissoluzione dei valori unitari. E sarà forse utile chiederci se la nuova libertà abbia veramente contribuito a fare dell’ individuo un cittadino del mondo, svincolato dalle appartenenze nazionali, o se abbia finito paradossalmente per rafforzare, fino all’ esasperazione, le ragioni pur valide dei particolarismi etnici e geografici, promuovendo un tribalismo che, pur nella legittima aspirazione a forme di vita comunitarie, di rapporti primari e di comunicazione empatica, di fatto incoraggia le chiusure campanilistiche, rimane indifferente alle grandi aggregazioni nazionali e non è del tutto estraneo alle derive xenofobe.
La crisi italiana sarà pertanto presentata come un fenomeno particolare di una tendenza diffusa nel mondo globalizzato. Sotto questo aspetto potranno comparativamente risultare preziosi i contributi di alcuni paesi che vivono situazioni di tensione in qualche modo analoghe a quelle italiane, in particolare afferenti all’ area germanica, francese, messicana, balcanica e spagnola.
Tutto questo mette in gioco la nozione stessa di identità nazionale, che potrà essere riscritta sulla base del riconoscimento delle diversità regionali. La trasformazione delle nazioni da monoculturali a multiculturali ha già comportato l’ avvaloramento degli elementi soggettivi della nozione di identità culturale (la volontà di appartenenza) a discapito di quelli oggettivi (sangue, lingua, territorio, memoria). Il passo successivo sembra ormai quello di collocare nella sfera del privato e del personale la costruzione del proprio irriducibile mondo interiore, laddove le identità nazionali forti degli Stati centralizzati pretendevano che la vita autentica e profonda dell’ individuo fosse la manifestazione di un aurorale modo di sentire e pensare collettivo, del genio del luogo, della stirpe, della razza.
Dobbiamo chiederci che cos’ è allora l’ identità nazionale, se non è più tutto questo, se la volontà di appartenenza, associata alla condivisione di valori quali la libertà, la tolleranza, la solidarietà, il riconoscimento reciproco, il rispetto della diversità possano essere sufficienti a trasformare in una comunità di destino una aggregazione di gruppi, etnie, culture e persone diversi per religione, principi etici, regole comportamentali. E ancora, è naturale conseguenza chiedersi se veramente una democrazia funzioni soltanto in presenza di una cultura omogenea e se non possano essere “cittadini” coloro che non vogliono o non riescono a realizzare la loro integrazione su tutti i piani dell’ esistenza, in modo da diventare in tutto simili a noi. Dove, allora, deve arrestarsi la difformità dei modi di sentire, pensare, e vivere, per evitare la disgregazione dell’ identità collettiva?


Michele Greco

09-10-2011 18:29
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[OT] Attualità e Cultura - magnesium - 26-09-2011, 20:46
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