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   Nucleare no, bambina che abbaia, si!
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Cher
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RE:  Nucleare no, bambina che abbaia, si!

mi.greco ha Scritto:

Caro Cher,
sono daccordo che la notizia diramata da un giovane studente, prossimo alla laurea, non fa testo, anche perchè non è sorretta da una adeguata e credibile documentazione.
Ciò non toglie che il tuo sdegno è infondato perchè credo, scusami se sbaglio, che anche tu non hai elementi per smentirlo.
In altre parole la bilancia non può avere pesi diversi se su uno dei piatti viene posto un "non valore"; se puoi smentire potrai portare a tuo favore il giusto peso.
Smentire significa ricondurre alla giusta considerazione la falsità di quanto si asserisce.
Il latte e la verdura fanno male? Ma fa male anche la comune sigaretta o il comune cellulare, giusto per parlare di scontati modelli di malessere sociale; e fumo e cellulari non sono stati "spinti" fino a noi da un venticello orientale.

Michele Greco

Capisco che bisogna confutare per affermare che quanto diramato dagli Ecostorditi è solo fesseria con intenti propagandistici antinucleari, ma il giochetto dei numeri funziona anche alla rovescia.

Vediamo un dettaglio dell'intrapendente :
.......«Questo significa che con poco più di 10 litri di latte contaminato il bambino riceve una dose radioattiva che raggiunge il limite massimo di sicurezza  imposto dalla direttiva Euratom per un anno», sostiene Lorenzo. «Con un litro di latte contaminato viene pertanto ingurgitata una quantità di iodio-131 che secondo Euratom è da considerare pericolosa, anche se fosse stata assunta in un mese». Comunque, al di là dei numeri, appellandosi alla letteratura scientifica, per Lorenzo si può certamente affermare che «non esiste soglia sotto la quale le radiazioni non possono fare danno, visto che si tratta di una questione probabilistica». I limiti di legge, continua il futuro medico-ecologo, «sono solo valori precauzionali: pertanto, ad ogni seppur minimale aumento dell’esposizione, corrisponde un aumento della possibilità di avere dei danni alla salute (e all’ambiente) perchè i nostri meccanismi di autoriparazione dei danni genetici sono “abituati” a lavorare con livelli di fondo più bassi», senza contare che «non esistono studi ufficiali sugli effetti di “basse” esposizioni prolungate nel tempo».

Questa affermazione è solo un pasticcio di comodo per generare panico in quanto la dose di Iodio 131 non è stata stabilita nel latte somministrato ma la si paragona al livello di soglia precauzionale, poi si tirano le conclusioni di comodo moltiplicando per dieci.
Poi conclude, sorvolando sui numeri ma ribadendo "che non esiste soglia"

Se portiamo a 100 i litri di latte dati al bimbo...... il bimbo si gonfia?

L'emivita dell'isotopo Iodio 131 è di 8 giorni è un dato irrilevante o lo teniamo presente?

Ci sono aree nel mondo con tanto di popolazioni che convivono con livelli di radiazioni molto elevati, vogliamo considerarle?

Naturalmente si confonde la sostanza chimica( vedi la melamina) con la radioattività ,vedi :
http://www.medicinalive.com/medicina-tra...in-italia/

http://www.repubblica.it/2008/09/sezioni...-casi.html



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Messaggio modificato il: 23-07-2011 alle 19:44 da Cher.

23-07-2011 19:31
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mi.greco
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Messaggio: #42
RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

Sono convinto che sul pianeta la "contaminazione" è ben distribuita un po' in ogni luogo e in ogni cosa contaminabile, specie nei prodotti organici e, particolarmente pericolosa, in quelli alimentari.
Il problema è stabilire se questa contaminazione si sia, nel nostro paese, aggravata dopo il disastro giapponese o no!
E' da decenni che si parla dei cibi contaminati compreso il latte, pertanto è da emeriti idioti attribuire dette responsabilità al recente dramma nucleare e naturale.
Piuttosto, ciò che è ancor più grave ed immorale, è usare questo fenomeno, vero o falso che sia, per speculare a fini politici e personali senza, invece, cercar rimedi a quelle contaminazioni di cui siamo provocatori e vittime.
Comunque tutto ciò che accade, sia in buona fede, sia volutamente per comodi interessi, non giustifica fermare il progresso scientifico ed incriminare la ricerca.
Tantomeno si giustifica l'"arrembaggio" al quale si assiste a prodotti di comodo che dovrebbero sostituire i benefici ed i "malefici" del nucleare, come le energie rinnovabili che sono ancora deboli ed insicure per i molteplici e dimostrati motivi ai quali da tempo facciamo riferimento.
Se vogliamo risparmiare, se vogliamo il nostro territorio meno inquinato e meno pericoloso, perchè non sostituiamo i nostri comuni mezzi di trasporto con le biciclette, con carrozze tirate da bei cavalli, con deltaplani e barche a vela?
Vedrete come finirebbero i conflitti per l'accaparramento del petrolio!
Ma l'uomo del terzo millennio ha bisogno di "ridurre" le distanze in tempi sempre più brevi, così, riducendo le distanze materiali, le geografie di superficie ed aeree, potrà sempre più accrescere quelle della comprenzione e del convivio umano, comode alla speculazione ed alla disuguaglianza.

Michele Greco

24-07-2011 11:43
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Cher
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Messaggio: #43
RE:  Nucleare no, bambina che abbaia, si!

mi.greco ha Scritto:

Sono convinto che sul pianeta la "contaminazione" è ben distribuita un po' in ogni luogo e in ogni cosa contaminabile, specie nei prodotti organici e, particolarmente pericolosa, in quelli alimentari.
Il problema è stabilire se questa contaminazione si sia, nel nostro paese, aggravata dopo il disastro giapponese o no!
E' da decenni che si parla dei cibi contaminati compreso il latte, pertanto è da emeriti idioti attribuire dette responsabilità al recente dramma nucleare e naturale.
Piuttosto, ciò che è ancor più grave ed immorale, è usare questo fenomeno, vero o falso che sia, per speculare a fini politici e personali senza, invece, cercar rimedi a quelle contaminazioni di cui siamo provocatori e vittime.
Comunque tutto ciò che accade, sia in buona fede, sia volutamente per comodi interessi, non giustifica fermare il progresso scientifico ed incriminare la ricerca.
Tantomeno si giustifica l'"arrembaggio" al quale si assiste a prodotti di comodo che dovrebbero sostituire i benefici ed i "malefici" del nucleare, come le energie rinnovabili che sono ancora deboli ed insicure per i molteplici e dimostrati motivi ai quali da tempo facciamo riferimento.
Se vogliamo risparmiare, se vogliamo il nostro territorio meno inquinato e meno pericoloso, perchè non sostituiamo i nostri comuni mezzi di trasporto con le biciclette, con carrozze tirate da bei cavalli, con deltaplani e barche a vela?
Vedrete come finirebbero i conflitti per l'accaparramento del petrolio!
Ma l'uomo del terzo millennio ha bisogno di "ridurre" le distanze in tempi sempre più brevi, così, riducendo le distanze materiali, le geografie di superficie ed aeree, potrà sempre più accrescere quelle della comprenzione e del convivio umano, comode alla speculazione ed alla disuguaglianza.

Michele Greco

http://www.sogin.eu/approfondimenti/Radi...retta.aspx

La radiazione terrestre diretta
Un diverso contributo alla radiazione naturale di fondo deriva dai radioisotopi naturali presenti a diversa concentrazione nelle acque, nelle rocce e nei terreni. Gran parte di questi radioisotopi naturali si originano gli uni dagli altri nel corso del processo di decadimento e vengono perciò raggruppati in “famiglie”, ciascuna originata da un radioisotopo “capostipite” e composta da tutti i radioisotopi che si generano nel decadimento del capostipite o di uno dei nuclei risultanti. La maggior parte dei radioisotopi naturali può essere in tal modo raggruppata in tre famiglie:
la famiglia dell’uranio, avente come capostipite l’uranio-238
la famiglia dell'attinio, avente come capostipite l’uranio-235
la famiglia del torio, avente come capostipite il torio-232
Con la radioattività artificiale indotta dall’uomo nei processi e nei reattori nucleari è stata scoperta anche la famiglia del nettunio, di cui possono essere considerati capostipiti o il curio-245 (245Cm) con T=9,3103 anni o il plutonio-241 (241Pu) con T=13,2 anni. Questa famiglia è assente in natura a causa delle brevi vite medie dei suoi componenti, almeno se considerate su scala geologica: infatti, anche se fosse stata presente all’epoca di formazione della Terra, tutti i suoi membri sarebbero ormai trasformati nel termine finale stabile, il 209Bi.

L'irradiazione, interna ed esterna, del corpo umano è causata in massima parte dai radioisotopi delle famiglie dell'uranio e del torio. Nella figura 1 sono illustrati i componenti di queste due famiglie. Ai fini dell’esposizione umana i radioisotopi naturali più importanti sono il potassio-40, l’uranio-238, il torio-232 e i discendenti di questi ultimi due (specie il radio-226, il radon-220, il radon-222, il polonio-210 e il piombo-210), tutti presenti nelle principali matrici ambientali e nei materiali impiegati nella costruzione degli edifici. La composizione e la concentrazione della radioattività naturale nel terreno variano tuttavia largamente.

Il contributo della radiazione terrestre varia molto con le caratteristiche geomorfologiche del terreno. In Italia esso determina una dose efficace individuale media di circa 0,60 mSv/anno, con margini di variabilità compresi fra la metà e il doppio della dose media, a seconda delle regioni. Esistono zone del pianeta in cui si hanno dosi anche 100 volte maggiori, come ad esempio nelle regioni indiane di Kerala e Tamil Nadu (da 4 a 17 mSv/anno) e nelle regioni brasiliane di Poços de Caldas e Guarapari (da 15 a 250 mSv/anno). Uno dei punti più “caldi” della Terra per quanto riguarda la radioattività ambientale è stato scoperto a Ramsar, in Iran, dove sono stati misurati livelli superiori ai 400 mSv/anno.

L'irraggiamento interno ed esterno (con riferimento al corpo umano) è causato quasi esclusivamente dai radioisotopi delle famiglie dell'uranio e del torio presenti nei minerali naturali e quindi nei materiali da costruzione. In ognuna delle famiglie radioattive compare un radioisotopo del radon (Rn), che assume notevole importanza nella determinazione della dose ambientale, tanto da richiedere un’analisi a parte (vedi più oltre “Esposizione al Radon”).

Nei materiali usati in edilizia si hanno normalmente 10 100 Bq/kg di radio-226 e torio-232, con picchi fino a qualche migliaio di Bq/kg, come si verifica per lo scisto di allume (Svezia), per le scorie di silicato di calcio (USA) e per i residui delle miniere di uranio (USA). Il potassio-40 è presente in concentrazioni di attività per lo più comprese tra qualche centinaio ed oltre un migliaio di Bq/kg. Il tufo vulcanico è caratterizzato da concentrazioni di radio-226 e torio-232 di 100 300 Bq/kg e di circa 1.500 Bq/kg di potassio-40.


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25-07-2011 14:48
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mi.greco
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Messaggio: #44
RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

Pongo a tutti alcune domande.
Sapete dirmi quali rimedi le autorità preposte per la salvaguardia della salute pubblica e dell'ambiente, anche se distintamente rappresentate, abbiano adottato ed adottino, o che pensano di adottare, o che vorrebbero adottare, per debellare o, per lo meno, ridurre i mali e le diverse patologie provocate dai volontari o involontari inquinamenti nei nostri spazi conviviali e vitali?
Se non sbaglio i mali provocati volontariamente sono azioni delinquenziali e tali diventano anche quelle che, seppure involontarie, sono conosciute ed ignorate.
Vi sono o non vi sono delle leggi a salvaguardare il rispetto d'una popolazione per lo più ignara ed impotente?
Si può sopportare la violenza contro i minori e gli indifesi e l'arricchimento illecito di quelle società che producono e sperimentano sulla nostra pelle "armi silenziose" legate ad un presunto benessere energetico?
In che modo possiamo difenderci se, pur chiedendo aiuto, l'aiuto ci viene negato, se, pur difronte ad accertati danni "confessati" e resi noti da autorevoli fonti d'informazione scientifica e medica, si fa orecchio da mercante?
Qualcuno può spiegare alle masse, per lo più convinte alla passività dalle "crociate anti nucleari", di cosa parliamo quando facciamo riferimento al persistere di inquinamenti biologici e biofisici voluti dal tornaconto di poteri esclusivamente ed egoisticamente e cinicamente economici?

Michele Greco

26-07-2011 11:55
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mi.greco
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Messaggio: #45
RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

Vi riporto due notizie apparse sul "Il Mattino" di Napoli, oggi.
La prima ci fa capire come la nostra dipendenza da certe conquiste tecnologiche ci porti ad un vero e proprio "panico di paura" quando s'interrompe il funzionamento di un, ormai "indispensabile", sistema di comunicazione. Un po' come l'improvviso crollo di un ponte(kafchiano) che unisce due rive.
Eppure questi sistemi che migliorano la nostra convivenza sono pericolosi, come è stato ripetutamente denunciato, non solo alla salute di chi li adopera ma anche a quanti, pur non adoperandoli, sono costretti a condividerli.
E' drammatico dover scegliere tra un benessere che crea malesseri e una faticosa abitudine ormai vecchia e superata, ma sana (non parlo dei metodi primitivi delle percussioni ritmiche o dei fumi degli andichi indiani; linguaggi ed alfabeti scomparsi col progresso).
Proiettarsi verso i "pericoli" del nucleare, o rendere più efficiente l'uso del gas, del carbone e del petrolio?
Scusatemi, stavo dimenticando, che abbiamo in campo le energie rinnovabili.
Quindi un futuro pulito, sicuro ed economico, senza i pericoli d'una catastrofe nucleare?
E' lecito avere qualche dubbio?
Intanto andiamo a ripristinare antenne e trasmittenti a Giugliano dove si preferisce vivere tra i rifiuti piuttosto che avere un cellulare spento per un po' di salutare tempo.
La notizia.

-"Salve vorrei segnalare un problema molto serio che affligge tantissime famiglie residenti nel comune di Giugliano in Campania e precisamente Zona Stadio Nuovo Corso Campano. Dal giorno 2 Giugno 2011 improvvisamente i ripetitori TIM e VODAFONE hanno smesso di funzionare e da allora nonostante migliaia di telefonate ai vari call center la situazione non è cambiata gli operatori scoraggiati inventano un guasto al giorno ma nessuno è in grado di dare una risposta certa e basata su fonti accertate.
Inoltre nella zona in cui risiedo la WIND e l H3G funzionano malissimo.
Io posso ritenermi fortunato avendo una linea fissa ma ci sono centinaia e centinaia di famiglia che utilizzano il cellulare come unico ponte di comunicazione con il mondo esterno ed onestamente nel 2011 certe situazioni sono assolutamente pazzesche.
Mi auguro che queste poche righe possano far chiarezza su questa problematica grazie mille e complimenti per il quotidiano online e per quello cartaceo

In fede GENTILE Davide-"

La seconda notizia si potrebbe, per certi versi, ricollegarla alla sfortunata bambina, figlia di due incapaci, che, costretta a vivere con un cane, lo imita.
Anche in questo caso , quello che leggerete accaduto ad Ascoli, vi è una matrice d'incapacità, di superficialità, di cultura, o di pura delinquenza?


-"ASCOLI - Un’ipotesi agghiacciante che non viene trascurata nell’ambito delle indagini sul piccolo Jason, il bimbo di due mesi e mezzo scomparso a Folignano e di cui non si conosce ancora la sorte, è che la giovane madre, convinta che il bimbo fosse morto mentre magari era solo stordito, lo abbia abbandonato ancora vivo da qualche parte.
La donna, Katia Reginella, 24 anni, sostiene di averlo seppellito in un bosco a Castel Trosino, a diverse decine di chilometri da dove risiede, ma il corpicino non è stato ancora trovato. Il verbale dell’ultimo interrogatorio della donna, che ha forti disagi psicologici, è stato secretato, ma trapela che la Reginella avrebbe detto di essere caduta mentre teneva il bimbo in braccio: “mi sembrava morto”, avrebbe riferito agli inquirenti. Intanto, Denny Pruscino, il padre - non biologico - di Jason, dovrebbe partecipare oggi al sopralluogo dei Ris nell’ appartamento a Piane di Morro dove abita con la moglie. I carabinieri delle investigazioni scientifiche, che arriveranno a Folignano in ritardo essendo stati 'dirottatì a Prato sulla scena del crimine dei due fidanzati trovati morti accoltellati, dovranno tra l’altro ricercare con il Luminol eventuali tracce ematiche laddove la Reginella sostiene che il piccolo è caduto battendo la testa. Le sua ricostruzione di ciò che sarebbe avvenuto dopo viene considerata completamente inattendibile. Anche per questo, oggi, sarà forse risentito il marito, secondo cui Jason è vivo e si trova all’estero affidato a terze persone. Le indagini sono coordinate dal comandante provinciale dei carabinieri di Ascoli col. Alessandro Patrizio, lo stesso che si sta occupando con i suoi uomini del caso Melania Rea, nonostante gli atti dell’inchiesta siano passati a Teramo.-"


Ritengo che viviamo in una società disunita in tutto ma pronta a reagire e ad unirsi soltanto se il proprio benessere, poco o grande che sia, venga messo in pericolo. Ci si unisce in piazza, in chiesa, nei camposanti, allo stadio, nelle sagre e nelle feste pagane, o religiose che siano, ma non spontaneamente; le genti vanno stimolate, istigate, raccolte negli stazzi conferenziali e politici, radunate e disperse a bastonate dalle forze dell'ordine se necessario.
Chiedete alle vittime del cattivo funzionamento d'un ripetitore che cosa abbiano mai capito dell'energia nucleare e chi di loro è disponibile a rinunciare al proprio televisore per recuperare i perduti ritmi biologici della propria vita?.

La vita è un vuoto a perdere!

Michele Greco


27-07-2011 14:26
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Messaggio: #46
RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

Precisazione
Nel pezzo che mi precede ho messo tra virgolette "panico di paura" che vi potrà sembrare un errore.
Faccio riferimento ad una canzone "panico di paura" del complesso Tamarri per mettere in ridicolo la notizia che segue.
Vi è gente che si fa prendere dal panico perchè il proprio cellulare non funziona e si sente solo, senza alcuna possibilità di comunicare.
Questa "sensazione" provocata è ancor più grave delle tante patologie dovute da una certa tecnologia sociale.

Michele Greco

27-07-2011 19:06
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Cher
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Messaggio: #47
RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

Correva l'anno 1905 e uno scrittore Italiano scrisse un racconto quanto mai attuale in riferimento alla scienza.

Ma prima di postarlo, quante cose sono avvenute in campo scientifico dal 1905 ad oggi a beneficio dell'umanità? E quante di queste scoperte e relative loro aplicazioni sono arenate dai politici da noi eletti?
una piccola rflessione prima di leggere un piacevole racconto eper piacevole intendo la scorrevolezza del testo.


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RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

Caro Cher,
forse non hai capito che io sono un cretino.
Non ho capito quello che hai scritto che dovrebbe essere una risposta a quanto io ho scritto precedentemente.
Comunque è ovvio che in un lasso di tempo può accadere di tutto ed è altrettanto ovvio che nel nostro paese non vi è autonomia nè libertà di parola, per non parlar di oneste azioni.
Quando vi è abuso di libertà (permissività) la stessa cade in disuso. Ciò accade per certi valori di vita comunitaria. Per il non valore, tipo la violenza, la prepotenza, il potere, la dittatura e lo sfruttamento, per citarne alcuni, ciò non succede.
La responsabilità è nostra, la politica ed i suoi rappresentanti, oggi, sono purtroppo figli della nostra ignoranza e superficialità.

Michele Greco

28-07-2011 15:18
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RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

http://www.pirandelloweb.com/novelle/192...la_scienza

NOVELLE PER UN ANNO - 1923 - "LA MOSCA"
3. Le sorprese della scienza (1905)

«Il Marzocco», 3 dicembre 1905, poi in Erma bifronte, Treves Milano 1906.



Avevo ben capito che l'amico Tucci, nell'invitarmi con quelle sue calorose e pressanti lettere a passare l'estate a Milocca, in fondo non desiderava tanto di procurare un piacere a me, quanto a se stesso il gusto di farmi restare a bocca aperta mostrandomi ciò che aveva saputo fare, con molto coraggio, in tanti anni d'infaticabile operosità.
Aveva preso a suo rischio e ventura certi terreni paludosi che ammorbavano quel paese, e ne aveva fatto i campi piú ubertosi di tutto il circondario: un paradiso!
Non mi faceva grazia nelle sue lettere di nessuno dei tanti palpiti che quella bonifica gli era costata e di nessuno dei tanti mezzi escogitati, dei tanti guai che gli erano diluviati, di nessuna delle tante lotte sostenute, lui solo contro Milocca tutta: lotte rusticane e lotte civili.
Per invogliarmi forse maggiormente, nell'ultima lettera mi diceva tra l'altro che aveva preso in moglie una saggia massaja, massaja in tutto: otto figliuoli in otto anni di matrimonio (due a un parto), e un nono per via; che aveva anche la suocera in casa, bravissima donna che gli voler a un mondo di bene, e anche il suocero in casa, perla d'uomo, dotto latinista e mio sviscerato ammiratore. Sicuro. Perché la mia fama di scrittore era volata fino a Milocca, dacché in un giornale s'era letto non so che articolo che parlava di me e d'un mio libro, dove c era un uomo che moriva due volte. Leggendo quell'articolo di giornale, l'amico Tucci s'era ricordato d'un tratto che noi era, amo stati compagni di scuola tant'anni, al Liceo e all'Università, e aveva parlato entusiastica mente del mio straordinario ingegno a suo suocero, il quale subito s'era fatto venire il libro di cui quel giornale parlava.
Ebbene, confesso che proprio quest'ultima notizia fu quella che mi vinse. Non càpita facilmente agli scrittori italiani la fortuna di veder la faccia dabbene d'uno dei tre o quattro acquirenti di qualche loro libro benavventurato. Presi il treno e partii per Milocca.
Otto ore buone di ferrovia e cinque di vettura.
Ma piano, con questa vettura! Cent'anni fa, non dico, sarà anche stata non molto vecchia; forse qualche molla, cent'anni fa, doveva averla ancora, anche se tre o quattro razzi delle ruote davanti e cinque o sei di quelle di dietro erano di già attorti di spago così come si vedevano adesso. Cuscini, non ne parliamo! Là, su la tavola nuda; e bisognava sedere in punta in punta, per cansare il rischio che la carne rimanesse presa in qualche fessura, giacché il legno, correndo, sganasciava tutto. Ma piano, con questo correre! Doveva dirlo la bestia. E quella bestia lì non diceva nulla: salutava perfino col muso a camminare. Sì, centomila volle sì, scambio dei piedi, voleva metterci le froge per terra, come ce le metteva, povera decrepita rozza, tanto gli zoccoli sferrati le facevano male. E quel boja di vetturino intanto aveva il coraggio di dire che bisognava saperla guidare, lasciarla andare col suo verso, perché ombrava, ombrava e, a frustarla, ritta gli si levava come una lepre, certe volte quella bestiaccia lì.
E che strada! Non posso dire d'averla proprio veduta bene tutta quanta perché in certi precipizi ridi piuttosto la morte con gli occhi. Ma c erano poi le peltate che me la lasciavano ammirare per tutta un'eternità, tra i cigolii del legno e il soffiai di quella rozza sfiancata, che accorava. Da quanti mai secoli non era stata piú riattata quella strada?

– Il pan delle vetture è il brecciale, – mi spiegò il vetturino. – Se lo mangiano con le ruote. Quando manchi il brecciale, si mangiano la strada.

E se l'erano mangiata bene oh, quella strada! Certi solchi che, a infilarli, non dico, ci s'andava meglio che in un binario, da non muoversene piú però, badiamo! ma, a cascarci dentro per uno spaglio della bestia, si ribaltava com'è vero Dio ed era grazia cavarne sano l'osso del collo

– Ma perché le lasciano così senza pane le vetture a Milocca? – domandai.

– Perché? Perché c'è il progetto, – mi rispose il vetturino.

– Il...?

– Progetto, sissignore. Anzi, tanti progetti, ci sono. C'è chi vuoi portare la via ferrata fino a Milocca, e chi dice il tram e chi l'automobile. Insomma si studia, ecco, per poi riparare come faccia meglio al caso.

– E intanto?

– Intanto io mi privo di comperare un altro legno e un'altra bestia, perché, capirà, se mettono il treno o il tram o l'automobile, posso fischiare.

Arrivai a Milocca a sera chiusa.

Non vidi nulla, perché secondo il calendario doveva esserci la luna, quella sera; la luna non c'era; i lampioni a petrolio non erano stati accesi; e dunque non ci si vedeva neanche a tirar moccoli.
Villa Tucci era a circa mezz'ora dal paese. Ma, o che la rozza veramente non ne potesse piú o che avesse fiutato la rimessa lì vicina, come diceva sacrando il vetturino, il fatto è che non volle piú andare avanti nemmeno d'un passo.
E non seppi darle torto, io.
Dopo cinque ore di compagnia, m'ero quasi quasi medesimato con quella bestia: non avrei voluto piú andare avanti, neanch'io.
Pensavo:

« Chi sa, dopo tant'anni, come ritroverò Merigo Tucci! Già me lo ricordo così in nebbia. Chi sa come si sarà abbrutito a furia di batter la testa contro le dure, stupide realtà quotidiane d'una meschina vita provinciale! Da compagno di scuola, egli mi ammirava; ma ora vuoi essere ammirato lui da me, perché, – buttati via i libri – s'è arricchito; mentr'io, là! potrò farmi giulebbare dal suocero dotto latinista, il quale, figuriamoci! mi farà scontare a sudore di sangue le tre lirette spese per il mio libro. E otto marmocchi poi, e la suocera, Dio immortale, e la nuora buona massaja. E questo paese che Tucci mi ha decantato ricchissimo e che intanto si fa trovare al bujo, dopo quella stradaccia lì e questo legnetto qua per accogliere gli ospiti. Dove son venuto a cacciarmi? »

Mentre mi pascevo comodamente di queste dolci riflessioni, la rozza, piantata lì su i quattro stinchi, si pasceva a sua volta d'una tempesta di frustate, imperturbabilmente. Alla fine il vetturino, stanco morto di quella sua gran fatica, disperato e furibondo, mi propose di andare a piedi.

– È qui vicino. La valigia gliela porto io.

– E andiamo, su! Sgranchiremo le gambe, – dissi io, smontando. – Ma la via è buona, almeno? Con questo bujo...

Lei non tema. Andrò io avanti; lei mi terrà dietro, piano piano, con giudizio.
Fortuna ch'era bujo! Quel ch'occhio non vede, cuore non crede. Quando però il giorno dopo vidi quell'altra strada lì restai basito, non tanto perché c'ero passato, quanto per il pensiero che se Dio misericordioso aveva permesso che non ci lasciassi la pelle, chi sa a quali terribili prove vuoi dire che m'ha predestinato.
Fu così forte l'impressione che mi fece quella strada e poi l'aspetto di quel paese – squallido, nudo in desolato abbandono, come dopo un saccheggio o un orrendo cataclisma; senza vie, senz'acqua, senza luce – che la villa dell'amico mio e l'accoglienza ch'egli mi fece con tutti i suoi e l'ammirazione del suocero e via dicendo mi parvero rose, a confronto.

– Ma come! – dissi al Tucci. – Questo è il paese ricco e felice, tra i piú ricchi e felici del mondo?

E Tucci, socchiudendo gli occhi:

– Questo. E te ne accorgerai.

Mi venne di prenderlo a schiaffi. Perché non s'era mica incretinito quel pezzo d'omaccione là; pareva anzi che l'ingegno naturale, con l'alacrità e l'esperienza della vita, nelle dure lotte contro la terra e gli uomini, gli si fosse ingagliardito e acceso; e gli sfolgorava dagli occhi ridenti, da cui io, sciupato e immalinconito dalle vane brighe della città, roso dalle artificiose assidue cure ìntellettuali, mi sentivo commiserato e deriso a un tempo.
Ma se, ad onta delle mie previsioni, dovevo riconoscer lui, Merigo Tucci, degno veramente d'ammirazione, quel paesettaccio no e poi no, perdio! Ricco? felice?

– Mi canzoni? – gli gridai. – Non avete neanche acqua per bere e per lavarvi la faccia, case da abitare, strade per camminare, luce la sera per vedere dove andate a rompervi il collo, e siete ricchi e felici? Va' là, ho capito, sai. La solita retorica! La ricchezza e la felicità nella beata ignoranza, è vero? Vuoi dirmi questo?

– No, al contrario, – mi rispose Merigo Tucci, con un sorriso, opponendo studiatamente alla mia stizza altrettanta calma. – Nella scienza, caro mio! La felicità nostra è fondata nella scienza piú occhialuta che abbia mai soccorso la povera, industre umanità. Oh sì, staremmo freschi veramente se fossero ignoranti i nostri amministratori! Tu m insegni. Che salvaguardia può esser piú l'ignoranza in tempi come i nostri? Promettimi che non mi domanderai piú nulla fino a questa sera. Ti farò assistere a una seduta del nostro Consiglio comunale. Appunto questa sera si discuterà una questione di capitalissima importanza: l'illuminazione del paese. Tu avrai dalle cose stesse che vedrai e sentirai la dimostrazione piú chiara e piú convincente di quanto ti ho detto. Intanto, la ricchezza nostra è nelle meravigliose cascate di Chiarenza che ti farò vedere, e nelle terre che sono, grazie a Dio, così fertili, che ci dan tre raccolti all'anno. Ora vedrai; vieni con me.

Passò tutto; mi sobbarcai a tutto; mi sorbii come decottini a digiuno tutti gli spassi e le distrazioni della giornata, col pensiero fisso alla dimostrazione che dovevo avere quella sera al Municipio della ricchezza e della felicità di Milocca.
Tucci, ad esempio, mi fece visitare palmo per palmo i suoi campi? Gli sorrisi. Mi fece una nuova e piú diffusa spiegazione della sua grande impresa lì su i luoghi? Gli sorrisi. E davvero l'impeto delle correnti aveva sgrottato tutte le terre e a lui era toccato asciugare e rialzar le campagne, corredandole della belletta, del grassume prezioso? Sì? davvero? Oh che piacere! Gli sorrisi. Ma far la roba è niente: a governarla ti voglio! E dunque gli ulivi si governano ogni tre anni con tre o quattro corbelli di sugo sostanzioso, pecorino? Sì? davvero? Oh che piacere! E gli sorrisi anche quando in cantina, con un'aria da Carlomagno, mi mostrò quattro lunghe andane di botti, e anche lì mi spiegò come valga piú saper governare il tino che la botte e com'egli facesse piú colorito il vino e come gli accrescesse forza e corpo mescolandovi certe qualità d'uve scelte, spicciolate, ammostate da sè, senza mai erbe, mai foglie di sambuco o di tiglio, mai tannino o gesso o catrarne.
E sorrisi anche quando, piú morto che vivo, rientrai in villa e mi vidi venire incontro la tribú dei marmocchi in processione, i quali, mostrandomi rotti i giocattoli che avevo loro donati la sera avanti, mi domandavano con un lungo, strascicato lamento, uno dopo l'altro, tra lagrime senza fine:

– Peeerché queeesto m'hai portaaato?

– Peeerché queeesto m'hai portaaato?

Carini! carini! carini!
E sorrisi anche al suocero, mio ammiratore, il quale – sissignori – era cieco, cieco da circa dieci anni e del mio libro non conosceva che qualche paginetta che il genero gli aveva potuto leggere di sera, dopo cena. Voleva egli ora che glielo leggessi io, il mio libro? Ma subito! E fu una vera fortuna per lui, che non potesse vedere il mio sorriso, e tutti quelli che gli porsi poi, ogni qualvolta il brav'uomo, ch'era straordinariamente erudito, m'interrompeva nella lettura (oh, quasi a ogni rigo!) per domandarmi con buona grazia se non credessi per avventura che avrei fatto meglio a usare un'altra parola invece di quella che avevo usata, o un'altra frase, o un altro costrutto, perché Daniello Bartoli, sicuro, Daniello Bartoli...
Finalmente arrivò la sera! Ero vivo ancora, non avrei saputo dir come, ma vivo, e potevo avere la famosa dimostrazione che Tucci mi aveva promesso.
Andammo insieme al Municipio, per la seduta del Consiglio comunale.
Era, come la maestra e donna di tutte le case del paese, la piú squallida e la piú scura: una catapecchia grave in uno spiazzo sterposo, con in mezzo un fosco cisternone abbandonato Vi si saliva per una scalaccia buja, intanfata d'umido, stenebrata a malapena da due tisici lumini filanti, di quelli con le spere di latta, appiccati al muro quasi per far vedere come ornati di stucco, no, per dir la verità, non ce ne fossero, ma gromme di muffa, si e tante!
Saliva con noi una moltitudine di gente, attirata dalla discussione di gran momento che doveva svolgersi quella sera: salii a con un contegno, anzi con un cipiglio che doveva per forza meravigliare uno come me, abituato a non veder mai prendere sul serio le sedute d'un Consiglio comunale.
La meraviglia mi era poi accresciuta, dall'aria, dall'aspetto di quella gente, che non mi pareva affatto così sciocca da doversi con tanta facilità contentare d'esser trattata com'era, cioè a modo di cani, dal Municipio.
Tucci fermò per la scala un tozzo omacciotto aggrondato, barbuto, rossigno, che, evidentemente, non voleva esser distratto dai pensieri che lo gonfiavano.

– Zagardi, ti presento l'amico mio...

E disse il mio nome. Quegli si voltò di mala grazia e rispose appena, con un grugnito, alla presentazione. Poi mi domandò a bruciapelo.

– Scusi, com'è illuminata la sua città? – A luce elettrica, – risposi.

E lui, cupo:

– La compiango. Sentirà stasera. Scusi, ho fretta.

E via, a balzi, per il resto della scala.

– Sentirai, – mi ripeté Tucci, stringendomi il braccio. – È formidabile! Eloquenza mordace, irruente. Sentirai!

– – E intanto ha il coraggio di compiangermi?

– Avrà le sue ragioni. Su, su, affrettiamoci, o non troveremo piú posto.

La mastra sala, la Sala del Consiglio, rischiarata da altri lumini a cui quelli della scala avevano ben poco da invidiare, pareva un aula di pretura delle piú sudice e polverose I banchi dei consiglieri e le poltrone di cuojo erano della più venerabile antichità; ma, a considerarli bene nelle loro relazioni con quelli che tra poco avrebbero preso posto in essi e che ora passeggiavano per la sala, assorti, taciturni, ispidi come tanti cocomerelli selvatici pronti a schizzare a un minimo urto il loro sugo purgativo, pareva che non per gli anni si fossero logorati così, ma per la cura cupamente austera del pubblico bene, per i pensieri roditori che in loro, naturalmente, erano divenuti tarli.
Tucci mi mostrò e mi nominò a dito i consiglieri piú autorevoli: l'Ansatti tra i giovani, rivale dello Zagardi, tozzo e barbuto anche lui, ma bruno; il Colacci, vecchio gigantesco, calvo, sbarbato, dalla pinguedine floscia; il Maganza, bell'uomo, militarmente impostato, che guardava tutti con rigidezza sdegnosa. Ma ecco, ecco il sindaco in ritardo. Quello? Sì, Anselmo Placci. Tondo, biondo, rubicondo: quel sindaco stonava.

– Non stona, vedrai, – mi disse Tucci. – È il sindaco che ci vuole.

Nessuno lo salutava; solo il Colacci gigantesco gli si accostò per battergli forte la mano su la spalla. Egli sorrise, corse a prender posto sul suo seggio, asciugandosi il sudore, e sonò il campanello, mentre il capo – usciere gli porgeva la nota dei consiglieri presenti. Non mancava nessuno.
Il segretario, senza aspettar l'ordine, aveva preso a leggere il verbale della seduta precedente, che doveva essere redatto con la piú scrupolosa diligenza, perché i consiglieri che lo ascoltavano accigliati approvavano di tratto in tratto col capo, e in fine non trovarono nulla da ridire.
Prestai ascolto anch'io a quel verbale, volgendomi ogni tanto, smarrito e sgomento, a guardare l'amico Tucci. A proposito delle strade di Milocca, si parlava come niente di Londra, di Parigi, di Berlino, di New York, di Chicago, in quel verbale, e saltavan fuori nomi d'illustri scienziati d'ogni nazione e calcoli complicatissimi e astrusissime disquisizioni, per cui i capelli del magro, pallido segretario mi pareva si ritraessero verso la nuca, man mano ch'egli leggeva, e che la fronte gli crescesse mostruosamente. Intanto due o tre uscieri, zitti zitti, in punta di piedi, recavano a questo e a quel banco pile enormi di libri e grossi incartamenti.

– Nessuno ha da fare osservazioni al verbale? – domandò alla fine il sindaco. stropicciandosi le mani paffutelle e guardando in giro. – Allora s'intende approvato. L'ordine del giorno reca: – Discussione del progetto presentato dalla Giunta per un impianto idro–termo–elettrico nel Comune di Milocca. – Signori Consiglieri! Voi conoscete già questo progetto e avete avuto tutto il tempo d'esaminarlo e di studiarlo in ogni sua parte. Prima di aprire la discussione, consentite che io, anche a nome dei colleghi della Giunta, dichiari che noi abbiamo fatto di tutto per risolvere nel minor tempo e nel modo che ci è sembrato piú conveniente, sia per il decoro e per il vantaggio del paese, sia rispetto alle condizioni economiche del nostro Comune, il gravissimo problema dell'illuminazione. Aspettiamo dunque fiduciosi e sereni il vostro giudizio, che sarà equo certamente; e vi promettiamo fin d'ora, che accoglieremo ben volentieri tutti quei consigli, tutte quelle modificazioni che a voi piacerà di proporre, ispirandovi come noi al bene e alla prosperità del nostro paese.

Nessun segno d'approvazione.
E si levò prima a parlare il consigliere Maganza, quello dall'impastatura militaresca. Premise che sarebbe stato brevissimo, al solito suo. Tanto piú che per distruggere e atterrare quel fantastico edificio di cartapesta (sic), ch'era il progetto della Giunta, poche parole sarebbero bastate. Poche parole e qualche cifra.
E punto per punto il consigliere Maganza si mise a criticare il progetto, con straordinaria lucidità d'idee e parola acuta, incisiva: il complesso dei lavori e delle spese; la sanzione che si doveva dare per l'acquisto della concessione dell'acqua di Chiarenza; i rischi gravissimi a cui sarebbe andato incontro il Municipio: il rischio della costruzione e il rischio dell'esercizio; l'insufficienza della somma preventivata, che saltava agli occhi di tutti coloro che avevano fatto impianti meccanici e sapevano come fosse impossibile contener le spese nei limiti dei preventivi, specialmente quando questi preventivi erano fatti sopra progetti di massima e con l'evidente proposito di fare apparir piccola la spesa; il carattere impegnativo che aveva l'offerta dell'accollatario, fermi restando i dati su i quali l'offerta medesima era fondata; dati che per forza il Consiglio avrebbe dovuto alterare con varianti e aggiunte ai lavori idraulici, con varianti e aggiunte Gl'impianti meccanici; e ciò oltre a tutti i casi imprevisti e imprevedibili, di forza maggiore, e a tutte le accidentalità, incagli, intoppi, che certamente non sarebbero mancati. Come poi fare appunti particolareggiati senza avere a disposizione i disegni d'esecuzione e i dati necessari? Eppure due enormi lacune apparivano già evidentissime nel progetto: nessuna somma per le spese generali, mentre ognuno comprendeva che non si potevano eseguire lavori così grandiosi, così estesi, così varii e delicati, senza gravi spese di direzione e di sorveglianza e spese legali e amministrative; e l'altra lacuna ben piú vasta e profonda: la riserva termica che in principio la Giunta sosteneva non necessaria e che poi finalmente ammetteva.
E qui il consigliere Maganza, con l'ajuto dei libri che gli avevano recati gli uscieri, si sprofondò in una intricatissima, minuziosa confutazione scientifica, parlando della forza dei torrenti e delle cascate e di prese e di canali e di condotte forzate e di macchinarii e di condotte elettriche e delle relazioni da stabilire tra riserva termica e forza idraulica, oltre la riserva degli accumulatori; citando la Società Edison di Milano e l'Alta Italia di Torino e ciò che per simili impianti s'era fatto a Vienna, a Pietroburgo, a Berlino.
Eran passate circa due ore e il brevissimo discorso non accennava ancora di finire. Il pubblico stipato pendeva dalle labbra dell'oratore, per nulla oppresso da tanta copia d'irta, spaventevole erudizione. Io quasi non tiravo piú fiato; eppure lo stupore mi teneva lì, con gli occhi sbarrati e a bocca aperta. Ma alla fine, il Maganza, mentre il pubblico s'agitava, non già per sollievo, anzi per viva ammirazione, concluse così:

– La dura esperienza in altre città, o signori, ha purtroppo dimostrato che gl'impianti idro–termo–elettrici cono della massima difficoltà e serbano dolorosissime sorprese. Nessuno può far miracoli, e tanto meno, su la base d'un così fatto progetto, potrà farne il Municipio di Milocca!

Scoppiarono frenetici applausi e il consigliere Ansatti si precipitò dal suo banco ad abbracciare e baciare il Maganza; poi, rivolto al pubblico e ritornando man mano al suo posto, prese a gridare tutto infocato, con violenti gesti:

– Si osa proporre, o signori, oggi, oggi, come se noi ci trovassimo dieci o venti anni addietro, al tempo di Galileo Ferraris, si osa proporre un impianto idro–termoelettrico a Milocca! Ah come mi metterei a ridere, se potesse parermi uno scherzo! Ma coi denari dei contribuenti, o signori della Giunta, non è lecito scherzare, ed io non rido, io m'infiammo anzi di sdegno! Un impianto idro–termo–elettrico a Milocca, quando già spunta su l'orizzonte scientifico la gloria consacrata di Pictet? Non vi farò il torto di credere, o signori, che voi ignoriate chi sia l'illustre professor Pictet, colui che con un processo di produzione economica dell'ossigeno industriale prepara una memoranda rivoluzione nel mondo della scienza, della tecnica e dell'industria, una rivoluzione che sconvolgerà tutto il macchinismo della vita moderna, sostituendo questo nuovo elemento di luce e di calore a tutti quelli, di potenza molto minore, che finora sono in uso!

E con questo tono e con crescente fuoco, il consigliere Ansatti spiegò al pubblico attonito e affascinato la scoperta del Pictet, e come col sistema da lui inventato le fiamme delle reticelle Auer sarebbero arrivate alle altissime temperature di tremila gradi, aumentando di ben venti volte la loro luminosità; e come la luce così ottenuta sarebbe stata, a differenza di tutte le altre, molto simile a quella solare; e che se poi, al posto del gas, si fosse messa un'altra miscela derivante da un trattamento del carbon fossile col vapore acqueo e l'ossigeno industriale, il potere calorifico sarebbe aumentato di altre sei volte!
Mentr'egli spiegava questi prodigi, il consigliere Zagardi, suo rivale, quello che mi aveva compianto per la scala, sogghignava sotto sotto. L'Ansatti se ne accorse e gli gridò:

– C'è poco da sogghignare, collega Zagardi! Dico e sostengo di altre sei volte! Ci ho qui i libri; te lo dimostrerò!

E glielo dimostrò, difatti; e alla fine, balzando da quella terribile dimostrazione piú vivo e piú infocato di prima, concluse, rivolto alla Giunta:

– Ora in quali condizioni, o ciechi amministratori, in quali condizioni d'inferiorità si troverebbero il Municipio e il paese di Milocca, coi loro miserabili 1000 cavalli di forza elettrica, quando questo enorme rivolgimento sarà nell'industria e nella vita un fatto compiuto?

– Scusami, – diss'io piano all'amico Tucci, mentre gli applausi scrosciavano nella sala con tale impeto che il tetto pareva ne dovesse subissare, – levami un dubbio: non è intanto al bujo il paese di Milocca?

Ma Tucci non volle rispondermi:
Zitto! Zitto! Ecco che parla Zagardi! Sta' a sentire!
Il tozzo omacciotto barbuto s'era infatti levato, col sogghigno ancora su le labbra, torcendosi sul mento, con gesto dispettoso, il rosso pelo ricciuto.

– Ho sogghignato, – disse, – e sogghigno, collega Ansatti, nel vederti così tutto fiammante d'ossigeno industriale, paladino caloroso del professor Pictet! Ho sogghignato e sogghigno collega Ansatti non tanto di sdegno quanto di dolore nel vedere come tu, così accorto, tu, giovane e vigile bracco della scienza, ti sia fermato alla nuova scoperta di quel professor francese e, abbagliato dalla luce venti volte cresciuta delle reticelle Auer, non abbia veduto un piú recente sistema d'illuminazione che il Municipio di Parigi va sperimentando per farne poi l'applicazione generale nella ville lumière. Io dico il Lusol, collega Ansatti, e non scioglierò inni in gloria della nuova scoperta, perché non con gl'inni si fanno le rivoluzioni nel campo della scienza, della tecnica e dell'industria, ma con calcoli riposati e rigorosi.

E qui lo Zagardi, non smettendo mai di tormentarsi sul mento la barbetta rossigna, piano piano, col suo fare mordace e dispettoso, parlò della semplicità meravigliosa delle lampade a lusol, nelle quali il calore di combustione dello stoppino e la capillarità bastavano a determinare senz'alcun meccanismo l'ascesa del liquido illuminante, la sua vaporizzazione e la sua mescolanza alla forte proporzione d'aria che rendeva la fiamma piú viva e sfavillante di quella ottenuta con qualunque altro sistema. E per un miserabilissimo centesimo si sarebbe ormai avuta la stessa luce che si aveva a quattro o cinque centesimi col vile petrolio, a otto o dieci con l'ambiziosa elettricità, a quindici o venti col pacifico olio. E il Lusol non richiedeva né costruzioni di officine, né impianti, né canalizzazioni. Non aveva egli dunque ragione di sogghignare?
O fosse per la tempesta suscitata nella poca aria della sala dalle deliranti acclamazioni e dai battimani del pubblico, o fosse per mancanza d'alimento, essendosi la seduta già protratta oltre ogni previsione, il fatto è che, alla fine del discorso dello Zagardi, i lumi si abbassarono di tanto, che si era quasi al bujo quando sorse per ultimo a parlare il Colacci, il vecchio gigantesco dalla pinguedine floscia. Ma ecco: prima un usciere e poi un altro e poi un terzo entrarono come fantasmi nell'aula, reggendo ciascuno una candela stearica. L'aspettazione nel pubblico era intensa: indimenticabile la scena che offriva quella tetra sala affollata nella semioscurità, con quelle tre candele accese presso il vecchio gigantesco che con ampli gesti e voce tonante mellificava la Scienza, feconda madre di luce inestinguibile, produttrice inesauribile di sempre nuove energie e di piú splendida vita.
Dopo le scoperte mirabili di cui avevano parlato l'Ansatti e lo Zagardi, era piú possibile sostenere l'impianto idro–termo–elettrico proposto dalla Giunta? Che figura avrebbe fatto il paese di Milocca illuminato soltanto a luce elettrica? Questo era il tempo delle grandi scoperte, e ogni amministrazione che avesse veramente a cuore il decoro del paese e il bene dei cittadini, doveva stare in guardia dalle sorprese continue della Scienza. Il consigliere Colacci, pertanto, sicuro d'interpretare i voti del buon popolo milocchese e di tutti i colleghi consiglieri, proponeva la sospensiva sul progetto della Giunta, in vista dei nuovi studi e delle nuove scoperte che avrebbero finalmente dato la luce al paese di Milocca.

– Hai capito? – mi domandò Tucci, uscendo poco dopo nelle tenebre dello spiazzo sterposo innanzi al Municipio. – E così per l'acqua, e così per le strade, e così per tutto. Da una ventina d'anni il Colacci si alza a ogni fine di seduta per inneggiare alla Scienza, per inneggiare alla luce, mentre i lumi si spengono, e propone la sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi studii e di nuove scoperte. Così noi siamo salvi, amico mio! Tu puoi star sicuro che la Scienza, a Milocca, non entrerà mai. Hai una scatola di fiammiferi? Cavala fuori e fatti lume da te.


Una  fredda nebbia illividisce il cielo,
le notti incominciano prima.
Tutti conoscono il declino,
ma pochi ne discernono la linea di confine.



Cher03@hotmail.it
29-07-2011 10:28
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RE: Nucleare no, bambina che abbaia, si!

Bene!
Facciamoci una ripassata pirandelliana mentre la bambina continua ad abbaiare e gli antinuclearisti a ridere di te, di me e di tutti i "sognatori".
Beccati questa!



«Il Marzocco», 2 ottobre 1904, poi in Erma bifronte, Treves Milano 1906.




Trafelati, ansanti, per far piú presto, quando furono sotto il borgo, – su, di qua, coraggio! – s'arrampicarono per la scabra ripa cretosa, ajutandosi anche con le mani – forza! forza! – poiché gli scarponi imbullettati – Dio sacrato! – scivolavano.
Appena s'affacciarono paonazzi sulla ripa, le donne, affollate e vocianti intorno alla fontanella all'uscita del paese, si voltarono tutte a guardare. O non erano i fratelli Tortorici, quei due là? Sì, Neli e Saro Tortorici. Oh poveretti! E perché correvano così?
Neli, il minore dei fratelli, non potendone piú, si fermò un momento per tirar fiato e rispondere a quelle donne; ma Saro se lo trascinò via, per un braccio.

– Giurlannu Zarú, nostro cugino! – disse allora Neli, voltandosi, e alzò una mano in atto di benedire.

Le donne proruppero in esclamazioni di compianto d'orrore: una domandò, forte:


– Chi è stato?





– Nessuno: Dio! – gridò Neli da lontano.

Voltarono, corsero alla piazzetta, ov'era la casa del medico condotto.
Il signor dottore, Sidoro Lopiccolo, scamiciato, spettorato, con una barbaccia di almeno dieci giorni su le guance flosce, e gli occhi gonfi e cisposi, s'aggirava per le stanze, strascicando le ciabatte e reggendo su le braccia una povera malatuccia ingiallita, pelle e ossa, di circa nove anni.
La moglie, in un fondo di letto, da undici mesi; sei figliuoli per casa, oltre a quella che teneva in braccio, ch'era la maggiore, laceri, sudici, inselvaggiti; tutta la casa, sossopra, una rovina: cocci di piatti, bucce, l'immondizia a mucchi sui pavimenti; seggiole rotte, poltrone sfondate, letti non piú rifatti chi sa da quanto tempo, con le coperte a brandelli, perché i ragazzi si spassavano a far la guerra sui letti, a cuscinate; bellini!
Solo intatto, in una stanza ch'era stata salottino, un ritratto fotografico ingrandito, appeso alla parete; il ritratto di lui, del signor dottore Sidoro Lopiccolo, quand'era ancora giovincello, laureato di fresco: lindo, attillato e sorridente.
Davanti a questo ritratto egli si recava ora, ciabattando; gli mostrava i denti in un ghigno aggraziato, s'inchinava e gli presentava la figliuola malata, allungando le braccia.

– Sisiné, eccoti qua!

Perché così, Sisiné, lo chiamava per vezzeggiarlo sua madre, allora; sua madre che si riprometteva grandi cose da lui ch'era il beniamino, la colonna, lo stendardo della casa.

– Sisiné!

Accolse quei due contadini come un cane idrofobo.

– Che volete?

Parlò Saro Tortorici, ancora affannato, con la berretta in mano:

– Signor dottore, c'è un poverello, nostro cugino, che sta morendo...

– Beato lui! Sonate a festa le campane! – gridò il dottore.

– Ah nossignore! Sta morendo, tutt'a un tratto, non si sa di che. Nelle terre di Montelusa, in una stalla.

Il dottore si tirò un passo indietro e proruppe, inferocito:

– A Montelusa?

C'erano, dal paese, sette miglia buone di strada. E che strada!

– Presto presto, per carità – pregò il Tortorici. – È tutto nero, come un pezzo di fegato! gonfio, che fa paura. Per carità!

– Ma come, a piedi? – urlò il dottore. – Dieci miglia a piedi? Voi siete pazzi! La mula! Voglio la mula. L'avete portata?

– Corro subito a prenderla, – s'affrettò a rispondere il Tortorici. – Me la faccio prestare.

– Ed io allora, – disse Neli, il minore, – nel frattempo, scappo a farmi la barba.

Il dottore si voltò a guardarlo, come se lo volesse mangiar con gli occhi.

– È domenica, signorino, – si scusò Neli, sorridendo, smarrito. – Sono fidanzato.

– Ah, fidanzato sei? – sghignò allora il medico, fuori di sé. – E pigliati questa, allora!

Gli mise, così dicendo, sulle braccia la figlia malata; poi prese a uno a uno gli altri piccini che gli s'erano affollati attorno e glieli spinse di furia fra le gambe:

– E quest'altro! e quest'altro! e quest'altro! e quest'altro! Bestia! bestia! bestia!

Gli voltò le spalle, fece per andarsene, ma tornò indietro, si riprese la malatuccia e gridò ai due:

– Andate via! La mula! Vengo subito.

Neli Tortorici tornò a sorridere, scendendo la scala, dietro al fratello Aveva vent'anni, lui; la fidanzata, Luzza, sedici: una rosa! Sette figliuoli? Ma pochi! Dodici, ne voleva. E a mantenerli, si sarebbe ajutato con quel pajo di braccia sole, ma buone, che Dio gli aveva dato. Allegramente, sempre. Lavorare e cantare, tutto a regola d'arte Non per nulla lo chiamavano Liolà, il poeta. E sentendosi amato da tutti per la sua bontà servizievole e il buon umore costante, sorrideva finanche all'aria che respirava. Il sole non era ancora riuscito a cuocergli la pelle, a inaridirgli il bel biondo dorato dei capelli riccioluti che tante donne gli avrebbero invidiato; tante donne che arrossivano, turbate, se egli le guardava in un certo modo, con quegli occhi chiari, vivi vivi.
Piú che del caso del cugino Zarú, quel giorno, egli era afflitto in fondo del broncio che gli avrebbe tenuto la sua Luzza, che da sei giorni sospirava quella domenica per stare un po' con lui. Ma poteva, in coscienza, esimersi da quella carità di cristiano? Povero Giurlannu! Era fidanzato anche lui. Che guajo, così all'improvviso! Abbacchiava le mandorle, laggiú, nella tenuta del Lopes, a Montelusa. La mattina avanti, sabato, il tempo s'era messo all'acqua; ma non pareva ci fosse pericolo di pioggia imminente. Verso mezzogiorno, però, il Lopes dice: – In un'ora Dio lavora; non vorrei, figliuoli, che le mandorle mi rimanessero per terra, sotto la pioggia. – E aveva comandato alle donne che stavano a raccogliere, di andar su, nel magazzino, a smallare. – Voi, – dice, rivolto agli uomini che abbacchiavano (e c'erano anche loro, Neli e Saro Tortorici) – voi, se volete, andate anche su, con le donne a smallare. – Giurlannu Zarú: – Pronto, – dice, – – ma la giornata mi corre col mio salario, di venticinque soldi? – No, mezza giornata, – dice il Lopes, – te la conto col tuo salario; il resto, a mezza lira, come le donne. – Soperchieria! Perché, mancava forse per gli uomini di lavorare e di guadagnarsi la giornata intera? Non pioveva né piovve difatti per tutta la giornata, né la notte. – Mezza lira, come le donne – dice Giurlannu Zarú – Io porto calzoni. Mi paghi la mezza giornata in ragione di venticinque soldi, o vado via.
Non se n andò: rimase ad aspettare fino a sera i cugini che s'erano contentati di smallare, a mezza lira, con le donne. A un certo punto, però stanco di stare in ozio a guardare, s'era recato in una stalla lì vicino per buttarsi a dormire, raccomandando alla ciurma di svegliarlo quando sarebbe venuta l'ora d'andar via.
S'abbacchiava da un giorno e mezzo, e le mandorle raccolte erano poche. Le donne proposero di smallarle tutte quella sera stessa, lavorando fino a tardi e rimanendo a dormire lì il resto della notte, per risalire al paese la mattina dopo, levandosi al bujo. Così fecero. Il Lopes portò fave cotte e due fiaschi di vino. A mezzanotte, finito di smallare, si buttarono tutti, uomini e donne, a dormire al sereno su l'aja, dove la paglia rimasta era bagnata dall'umido, come se veramente fosse piovuto.

– Liolà, canta!

E lui, Neli, s'era messo a cantare all'improvviso. La luna entrava e usciva di tra un fitto intrico di nuvolette bianche e nere; e la luna era la faccia tonda della sua Luzza che sorrideva e s'oscurava alle vicende ora tristi e ora liete dell'amore.
Giurlannu Zarú era rimasto nella stalla. Prima dell'alba, Saro si era recato a svegliarlo e lo aveva trovato lì, gonfio e nero, con un febbrone da cavallo.
Questo raccontò Neli Tortorici, là dal barbiere, il quale, a un certo punto distraendosi, lo incicciò col rasojo. Una feritina, presso il mento, che non pareva nemmeno, via! Neli non ebbe neanche il tempo di risentirsene, perché alla porta del barbiere s'era affacciata Luzza con la madre e Mita Lumia, la povera fidanzata di Giurlannu Zarú, che gridava e piangeva, disperata.
Ci volle del bello e del buono per fare intendere a quella poveretta che non poteva andare fino a Montelusa, a vedere il fidanzato: lo avrebbe veduto prima di sera, appena lo avrebbero portato su, alla meglio. Sopravvenne Saro, sbraitando che il medico era già a cavallo e non voleva piú aspettare. Neli si tirò Luzza in disparte e la pregò che avesse pazienza: sarebbe ritornato prima di sera e le avrebbe raccontato tante belle cose.
Belle cose, difatti, sono anche queste, per due fidanzati che se le dicono stringendosi le mani e guardandosi negli occhi.
Stradaccia scellerata! Certi precipizi, che al dottor Lopiccolo facevano vedere la morte con gli occhi, non ostante che Saro di qua, Neli di là reggessero la mula per la capezza.
Dall'alto si scorgeva tutta la vasta campagna, a pianure e convalli; coltivata a biade, a oliveti, a mandorleti; gialla ora di stoppie e qua e là chiazzata di nero dai fuochi della debbiatura; in fondo, si scorgeva il mare, d'un aspro azzurro. Gelsi, carrubi, cipressi, olivi serbavano il loro vario verde, perenne; le corone dei mandorli s'erano già diradate.
Tutt'intorno, nell'ampio giro dell'orizzonte, c'era come un velo di vento. Ma la calura era estenuante; il sole spaccava le pietre. Arrivava or sì or no, di là dalle siepi polverose di fichidindia, qualche strillo di calandra o la risata d'una gazza, che faceva drizzar le orecchie alla mula del dottore

– Mula mala! mula mala! – si lamentava questi allora.

Per non perdere di vista quelle orecchie, non avvertiva neppure al sole che aveva davanti agli occhi, e lasciava l'ombrellaccio aperto foderato di verde, appoggiato su l'omero.

– Vossignoria non abbia paura, ci siamo qua noi, – lo esortavano i fratelli Tortorici.

Paura, veramente, il dottore non avrebbe dovuto averne. Ma diceva per i figliuoli. Se la doveva guardare per quei sette disgraziati, la pelle.
Per distrarlo, i Tortorici si misero a parlargli della mal'annata: scarso il frumento, scarso l'orzo, scarse le fave; per i mandorli, si sapeva: non raffermano sempre: carichi un anno e l'altro no; e delle ulive non parlavano: la nebbia le aveva imbozzacchite sul crescere; né c'era da rifarsi con la vendemmia, ché tutti i vigneti della contrada erano presi dal male.

– Bella consolazione! – andava dicendo ogni tanto il dottore, dimenando la testa.

In capo a due ore di cammino, tutti i discorsi furono esauriti. Lo stradone correva diritto per un lungo tratto, e su lo strato alto di polvere bianchiccia si misero a conversare adesso i quattro zoccoli della mula e gli scarponi imbullettati dei due contadini. Liolà, a un certo punto, si diede a canticchiare, svogliato, a mezza voce; smise presto. Non s'incontrava anima viva, poiché tutti i contadini, di domenica, erano su al paese, chi per la messa, chi per le spese, chi per sollievo. Forse laggiú, a Montelusa, non era rimasto nessuno accanto a Giurlannu Zarú, che moriva solo, seppure era vivo ancora.
Solo, difatti, lo trovarono, nella stallaccia intanfata, steso sul morello, come Saro e Neli Tortorici lo avevano lasciato: livido, enorme, irriconoscibile.
Rantolava.
Dalla finestra ferrata, presso la mangiatoja, entrava il sole a percuotergli la faccia che non pareva piú umana: il naso, nel gonfiore, sparito; le labbra, nere e orribilmente tumefatte. E il rantolo usciva da quelle labbra, esasperato, come un ringhio. Tra i capelli ricci da moro una festuca di paglia splendeva nel sole.
I tre si fermarono un tratto a guardarlo, sgomenti, e come trattenuti dall'orrore di quella vista. La mula scalpitò, sbruffando, su l'acciottolato della stalla. Allora Saro Tortorici s'accostò al moribondo e lo chiamò amorosamente:

– Giurlà, Giurlà, c'è il dottore.

Neli andò a legar la mula alla mangiatoja, presso alla quale, sul muro, era come l'ombra di un'altra bestia, l'orma dell'asino che abitava in quella stalla e vi s'era stampato a forza di stropicciarsi.
Giurlannu Zarú, a un nuovo richiamo, smise di rantolare; Si provò ad aprir gli occhi insanguati, anneriti, pieni di paura; aprì la bocca orrenda e gemette, come arso dentro:

– Muojo!

– No, no, – s'affrettò a dirgli Saro, angosciato. – C'è qua il medico. L'abbiamo condotto noi; lo vedi?

– Portatemi al paese! – pregò il Zarù, e con affanno, senza potere accostar le labbra: – Oh mamma mia!

– Sì, ecco, c'è qua la mula! – rispose subito Saro.

– Ma anche in braccio, Giurlà, ti ci porto io! – disse Neli, accorrendo e chinandosi su lui. – Non t'avvilire!

Giurlannu Zarú si voltò alla voce di Neli, lo guatò con quegli occhi insanguati come se in prima non lo riconoscesse, poi mosse un braccio e lo prese per la cintola.

– Tu, bello? Tu?

– Io, sì, coraggio! Piangi? Non piangere, Giurlà, non piangere. È nulla!

E gli posò una mano sul petto che sussultava dai singhiozzi che non potevano rompergli dalla gola. Soffocato, a un certo punto il Zarú scosse il capo rabbiosamente, poi alzò una mano, prese Neli per la nuca e l'attiro a sé:

– Insieme, noi, dovevamo sposare...

– E insieme sposeremo, non dubitare! – disse Neli, levandogli la mano che gli s'era avvinghiata alla nuca.

Intanto il medico osservava il moribondo. Era chiaro: un caso di carbonchio.

– Dite un po', non ricordate di qualche insetto che v'abbia pinzato?

– No, – fece col capo il Zarú.

– Insetto? – domandò Saro.

Il medico spiegò, come poteva a quei due ignoranti, il male. Qualche bestia doveva esser morta in quei dintorni, di carbonchio. Su la carogna, buttata in fondo a qualche burrone, chi sa quanti insetti s'erano posati; qualcuno poi, volando, aveva potuto inoculare il male al Zarú, in quella stalla.
Mentre il medico parlava così, il Zarù aveva voltato la faccia verso il muro
Nessuno lo sapeva, e la morte intanto era lì, ancora; così piccola, che si sarebbe appena potuta scorgere, se qualcuno ci avesse fatto caso.
C'era una mosca , lì sul muro, che pareva immobile; ma, a guardarla bene, ora cacciava fuori la piccola proboscide e pompava, ora si nettava celermente le due esili zampine anteriori, stropicciandole fra loro, come soddisfatta.
Il Zarú la scorse e la fissò con gli occhi.
Una mosca .
Poteva essere stata quella o un'altra. Chi sa? Perché, ora, sentendo parlare il medico, gli pareva di ricordarsi. Sì, il giorno avanti, quando s'era buttato lì a dormire, aspettando che i cugini finissero di smallare le mandorle del Lopes, una mosca gli aveva dato fastidio. Poteva esser questa?
La vide a un tratto spiccare il volo e si voltò a seguirla con gli occhi.
Ecco era andata a posarsi sulla guancia di Neli. Dalla guancia, lieve lieve, essa ora scorreva in due tratti, sul mento, fino alla scalfittura del rasojo, e s'attaccava lì, vorace.

Giurlannu Zarú stette a mirarla un pezzo, intento, assorto. Poi, tra l'affanno catarroso, domandò con una voce da caverna:

– Una mosca , può essere?

– Una mosca ? E perché no? – rispose il medico.

Giurlannu Zarú non disse altro: si rimise a mirare quella mosca che Neli, quasi imbalordito dalle parole del medico non cacciava via. Egli, il Zarú, non badava piú al discorso del medico, ma godeva che questi, parlando, assorbisse così l'attenzione del cugino da farlo stare immobile come una statua, da non fargli avvertire il fastidio di quella mosca lì sulla guancia. Oh fosse la stessa! Allora sì, davvero, avrebbero sposato insieme! Una cupa invidia, una sorda gelosia feroce lo avevano preso di quel giovane cugino così bello e florido, per cui piena di promesse rimaneva la vita che a lui, ecco, veniva irnprovvisamente a mancare.
A un tratto Neli, come se finalmente si sentisse pinzato, alzò una mano, cacciò via la mosca e con le dita cominciò a premersi il mento, sul taglietto. Si voltò a Zarú che lo guardava e restò un po' sconcertato vedendo che questi aveva aperto le labbra orrende, a un sorriso mostruoso. Si guardarono un po' così. Poi il Zarú disse, quasi senza volerlo:

– La mosca .

Neli non comprese e chinò l'orecchio:

– Che dici?

– La mosca , – ripeté quello.

– Che mosca ? Dove? – chiese Neli, costernato, guardando il medico.

– Lì, dove ti gratti. Lo so sicuro! – disse il Zarú.

Neli mostrò al dottore la feritina sul mento:

– Che ci ho? Mi prude.

Il medico lo guardò, accigliato; poi, come se volesse osservarlo meglio, lo condusse fuori della stalla. Saro li seguì.
Che avvenne poi? Giurlannu Zarú attese, attese a lungo, con un'ansia che gl'irritava dentro tutte le viscere. Udiva parlare, là fuori, confusamente. A un tratto, Saro rientrò di furia nella stalla, prese la mula e, senza neanche voltarsi a guardarlo, uscì, gemendo:

– Ah, Neluccio mio! ah, Neluccio mio!

Dunque, era vero? Ed ecco, lo abbandonavano lì, come un cane. Provò a rizzarsi su un gomito, chiamò due volte:

– Saro! Saro!

Silenzio. Nessuno. Non si resse piú sul gomito, ricadde a giacere e si mise per un pezzo come a grufare, per non sentire il silenzio della campagna, che lo atterriva. A un tratto gli nacque il dubbio che avesse sognato, che avesse fatto quel sogno cattivo, nella febbre; ma, nel rivoltarsi verso il muro, rivide la mosca , lì di nuovo.
Eccola.
Ora cacciava fuori la piccola proboscide e pompava, ora si nettava celermente le due esili zampine anteriori, stropicciandole fra loro, come soddisfatta.

29-07-2011 18:46
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