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[OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
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Islam di casa in Europa Nelle chiese senza fedeli ora si fanno le moschee

http://www.ilgiornale.it/esteri/islam_se...comments=1

di Fiamma Nirenstein - 22 gennaio 2012, 08:00

La libertà religiosa è cosa sacrosanta, nei secoli segna il diritto alla diversità fra uomo e uomo. Ma guai se si trasforma, come spesso capita ormai nella nostra società dei diritti, in un gioco a dama, in cui con la propria pedina si mangia l’altro colore fino ad obliterarlo.

Chi è familiare con la storia dell’Islam sa che pregare e costruirsi un luogo di culto al posto di quello ebraico o cristiano è una norma di conquista. Da Hagia Sophia, la Santa Sofia divenuta l’immensa moschea di Costantinopoli quando cadde nel 1453, fino al Monte del Tempio ebraico a Gerusalemme dove fu costruita la Moschea di Al Aqsa, nelle sinagoghe mediorientali in Siria, in Algeria, fino ai templi indiani o ai Bahai in Iran, una volta che l’Islam costruisce una moschea, quella, secondo le scritture è per sempre la casa del popolo musulmano. Tanto che, per converso, Omar non volle pregare al Santo Sepolcro perché aveva promesso di non occuparlo.
Oggi l’immigrazione musulmana in Europa aumenta mentre le Chiese chiudono i battenti: ce ne dà le cifre, impressionanti, Soeren Kern, senior fellow del Gruppo di Studi Strategici per le Relazioni Transatlantiche basato a Madrid. La proliferazione di moschee in luoghi di culto cristiani abbandonati, secondo Kern, riflette il declino del Cristianesimo e la veloce crescita dell’Islam in Europa, fino al rimpiazzo. La nazione in cui si stanno proprio in questi giorni svolgendo gli ultimi episodi di questo romanzo è la Germania, a Duisburg dove la Chiesa cattolica ha annunciato un piano di chiusura di sei chiese. A Duisburg ci sono 500mila abitanti di cui 100mila musulmani, soprattutto turchi. Il giornale Der Western descrive una situazione drammatica nei distretti di Hamborn e Marxloh: qui l’unica chiesa che sopravvive è quella di San Pietro e Paolo e dovrebbe essere chiusa alla fine del 2012. A Marxloh c’è anche una moschea, la Merkez, dove si possono raccogliere 1200 persone. Per iniziativa del suo presidente Mohammed Al, le chiese verranno trasformate in moschee, ha detto. La popolazione musulmana è aumentata da 50mila persone nei primi anni Ottanta a 4 milioni, ci sono circa 200 moschee, più 128 in costruzione e 2600 sale di preghiera. Invece, 400 chiese cattoliche e 100 protestanti sono state chiuse.

In Francia, il numero delle moschee è raddoppiato negli ultimi dieci anni raggiungendo le 2000 e Dalil Boubakeur, rettore della Grande Moschea di Parigi, vuole arrivare a 4000. Invece la Chiesa cattolica ha costruito 20 chiese in dieci anni e ne ha chiuse più di 60. Per forza: anche se in Francia ci sono 41,6 milioni di cattolici, solo 1,9 milioni si dichiarano praticanti, mentre su 4,5 milioni di musulmani dei 6 di nordafricani o subsahariani presenti sul territorio, ben 2,5 vanno alla moschea regolarmente.

In Inghilterra, la situazione è ancora più seria: se 930mila musulmani vanno alla moschea, altrettanto fanno 913mila anglicani, ma siamo a casa della Regina. Diecimila chiese sono state chiuse dal 1960, fra cui 8000 chiese metodiste e 1700 anglicane. Nel 2020 si prevede la chiusura di altre 4000, mentre dall’altra parte ci sono 1700 moschee molte della quali in ex chiese, 2000 sale di preghiera e innumerevoli garage o magazzini trasformati in moschea. Nel dicembre 2011 il primo ministro David Cameron ha esclamato «Siamo una nazione cristiana e non dobbiamo avere paura di dirlo», ma sa benissimo che coloro che si chiamano cristiani in Inghilterra sono diminuiti del 10 per cento negli ultimi dieci anni.

Intanto il clerico egiziano Ali Abu Al Hasan dalla tv Al Helma, il 6 gennaio ha fatto uno dei tanti annunci che galvanizzano e infiammano: «Con l’emigrazione musulmana e il rifiuto europeo di sposarsi e fare bambini, cento di loro fra dieci anni diventeranno ottanta, e gli ottanta sessanta.. e i quaranta saranno dieci, e poi, non resterà nessuno.

L’Europa diventerà un solo Stato islamico». Esagerato? Lo ha detto lui.


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Tornano al Giglio per ridare le coperte a chi li ha soccorsi
di Cristiano Gatti - 30 gennaio 2012, 09:00

http://www.ilgiornale.it/interni/tornano...comments=1


Chissà se sul prossimo numero di Der Spiegel si leggerà anche di questi due italiani. Eventualmente, sarà curioso scoprire come li spiegheranno: un’anomalia genetica, uno scherzo della natura?

In attesa dell’uscita, l’Italia semplicemente registra. Va bene, c’è Schettino (ma ci sono anche i suoi ufficiali che non sono fuggiti e hanno salvato vite, sarebbe il caso di non dimenticarlo). Si dà poi il caso che sulla stessa nave, nella stessa storia, compaiano improvvisamente, senza clamori, senza codazzi di telecamere, anche due anonimi coniugi di Terni, Fabio Molinari e Cristina Meduri, cinquant’anni lui e quarantacinque lei.

Come giochi il destino nelle loro vite appare quanto meno curioso e singolare. Sposati ad agosto, riescono a fare il viaggio di nozze soltanto in gennaio. Amano la crociera, scelgono una crociera. Partenza il 13 gennaio da Civitavecchia. Nave Concordia, signora della flotta Costa. Nel giro di poche ore, entrano nel film che tutti conosciamo: la sera stessa, un comandante improvvido fa l’inchino più bullo nella storia della navigazione e addio viaggio di nozze. La crociera si conclude sull’Isola del Giglio, tra incubo e terrore, riscaldata soltanto dalla compassione degli isolani, che offrono coperte, viveri, umanità.

Dei coniugi Molinari da Terni, due tra i tantissimi naufraghi fortunatamente illesi, nessuno sa più niente fino a una domenica mattina di due settimane dopo. Questa volta sbarcano sull’Isola in modo molto più sicuro e ortodosso, dal traghetto delle 10,30. Badando bene di evitare il contagio giornalistico, portano a termine la loro commovente missione, come un pellegrinaggio di ringraziamento.

Cercano subito i vigili urbani, riconsegnano le coperte lavate e stirate che quella sera avevano ricevuto, sentitamente ringraziano. Alle 13 saranno già di nuovo sul traghetto del ritorno. Prima, però, la voce inevitabilmente si sparge e il loro gesto fa copertina: magari non di Der Spiegel, diciamo semplicemente del nostro svilito orgoglio civile.
«Ci sembrava giusto ringraziare queste persone, riportare le loro cose»: così, senza caricare di pistolotti retorici, gli sposini tardoni spiegano la loro gita domenicale.

È chiaro che qualcosa da dire venga spontaneo a tutti noi, loro connazionali. Dopo quello stramaledetto inchino finito sugli scogli, siamo usciti tumefatti dai reportage e dai saggi sociologici di mezzo mondo.

Noi stessi, sinceramente, siamo consci di vivere in un luogo dove circolano comandanti dandy e cascamorti, dove oltretutto risulta impensabile che qualcuno restituisca qualcosa: qui ci sono moltitudini di patrioti che non restituiscono nemmeno quanto hanno sottratto con la loro manolesta, figuriamoci chi ha ricevuto in dono, senza alcuna aspettativa di restituzione.

Eppure proprio qui, ancora qui, sull’Isola del Giglio, dove l’acciaio spaccato di una nave è diventato uno spaccato d’Italia più letto e ascoltato della Divina Commedia, in questo affresco allegorico di un intero popolo, improvvisamente compaiono due oscuri signori di Terni, semplicemente per restituire le coperte, semplicemente per dire grazie.

Ma l’Italia allora cos’è? Schettino o loro due? Non da oggi, non da quel venerdì sera, l’Italia è tutto.

Bisogna essere rigidi e quadrati come tedeschi per non capirlo. O ci sono pure tedeschi elastici e flessibili?


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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

Sul FOGLIO di oggi, 11/02/2012, a pag.1/4, la 4a parte dell'inchiesta di Giulio Meotti sulle relazioni Israele-Iran. Giulio Meotti continua la ricostruzione storica intervistando il giornalista israeliano Ronen Bergman.


Ronen Bergman

C’era un tempo in cui Ezer Weizman, il fondatore dell’aviazione. israeliana, stringeva accordi economici con il ministro per gli Armamenti dell’Iran, Hassan Toufanian. C’era un tempo in cui Yaakov Shapiro, l’ufficiale israeliano che curava i rapporti con gli iraniani, veniva ricevuto a Teheran “come un re”. C’era un tempo in cui la sola ambasciata con la stella di David in tutto il medio oriente era quella a Teheran. C’era un tempo in cui si vedeva un viavai di tecnici israeliani nel centro nucleare di Isfahan. Tutto ebbe fine il primo di febbraio del 1979, 12 Bahman 1357, alle ore nove e 7 minuti, quando un Jumbo dell’Air France comparve nel cielo azzurro- ceramica di Teheran, sorvolando i Monti Alborz. Su quell’aereo, noleggiato a credito, c’era Khomeini, il “profeta disarmato”. Ritornava in patria dopo quindici anni di esilio impostogli dallo scià Pahlavi, il “re dei re”. Milioni di persone avevano inondato le strade. Piangevano: “Allahu akbar”, Allah è grande, e “Marg bar scià”, morte allo scià. Uri Lubrani, ultimo ambasciatore israeliano in Iran, aveva mandato un cablo a Washington e Gerusalemme: “Lo scià sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Il presidente americano Jimmy Carter l’aveva ignorato. “Manderò davanti al tribunale del popolo tutti i corrotti sulla terra”, proclamò Khomeini. “Spezzerò i denti, taglierò le mani dei servi dell’imperialismo”. A ogni frase dell’imam, un milione e mezzo di persone gli faceva eco: “Sa’i ast”, ovvero “è giusto” e “così sia”. Per Israele, fu l’inizio della fine. Fu anche l’inizio del countdown atomico. “Quella fra Israele e Iran è la più lunga guerra nella storia del medio oriente”, dice a colloquio con il Foglio Ronen Bergman, il più noto giornalista investigativo israeliano. “Nel 2006 l’Iran, attraverso Hezbollah, ha sconfitto lo stato ebraico. E’ dal 1979 che i due paesi si stanno facendo una guerra sotterranea. Non è possibile fare profezie, ma per la prima volta da quando si parla di Iran, ovvero da metà degli anni Novanta, ho la certezza che Israele stia pianificando un attacco preventivo”. Bergman scrive per Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano ebraico, e recentemente sul New York Times ha firmato un lungo articolo in cui ha spiegato che Israele attaccherà l’Iran nel 2012. Il saggio ha fatto il giro del mondo, perché Bergman è il giornalista più insider d’Israele. Bergman, che attualmente sta lavorando a un libro sul Mossad, è l’autore di “The secret War with Iran”, libro-inchiesta su trent’anni di conflitto fra Teheran e Gerusalemme. “E’ una guerra titanica fra una rivoluzione islamica aggressiva e una società compiacente e soddisfatta di sé che vuole gettarsi alle spalle le paure esistenziali. Questi anni hanno dimostrato che l’Iran e Hezbollah sono avversari più tenaci, determinati e sofisticati di quelli che Israele e Stati Uniti hanno incontrato finora in medio oriente”. Con lo stato ebraico la monarchia di Reza Pahlavi intratteneva rapporti di collaborazione in campo agricolo, industriale, energetico e militare. La prova più eclatante di questo legame è una stella di David gigante scoperta nel dicembre 2010 sul tetto della Iran Air, accanto all’aeroporto internazionale di Teheran. L’edificio era stato costruito da ingegneri israeliani prima della Rivoluzione. Nella biografia di Khomeini “The Spirit of Allah”, il giornalista iraniano Amir Taheri racconta di una audiocassetta in cui l’imam denuncia una cospirazione fra la monarchia, “la Croce e gli ebrei”. Nei sermoni di Khomeini lo scià è chiamato “spia ebrea”. La rivoluzione provocò un terremoto in Iran nel campo della difesa, dei burocrati, dei servizi, dei militari legati allo scià. La prima cosa che fece Khomeini fu tagliare i rapporti con Israele, definito “cancro”. Ma alcune fabbriche israeliane avrebbero continuato a ricevere i pagamenti ogni anno (a causa del caos amministrativo a Teheran) per lavori che non erano mai stati terminati. Gli iraniani chiesero di riavere indietro il denaro per la cifra tonda di cinque miliardi di dollari. Racconta Bergman che nelle moschee i preti islamici distribuirono manifesti contro “il sionismo internazionale”, che avvennero piccoli pogrom e che “I Protocolli dei savi anziani di Sion” con prefazione di Joseph Goebbels vennero tradotti in farsi, la lingua iraniana. Il Mossad lanciò l’operazione “Shulchan Arukh” per portare via quarantamila ebrei. La predicazione antiebraica di Khomeini raggiunge il Libano, dove vive una folta comunità sciita. Hezbollah, detta “gli oppressi della terra”, spedì il primo kamikaze islamico contro i marine americani. Decine le vittime. Racconta Bergman che nel villaggio di Dir Qanoun al Nahr emissari iraniani presero parte al funerale dell’autista della Peugeot imbottita di dinamite. Il Mossad intercettò una lettera alla famiglia del kamikaze spedita da Teheran: portava la firma di Khomeini. Il 4 novembre 1983 un camion esplosivo uccide ventotto israeliani dell’intelligence militare. Si scoprirà che l’operazione era stata ordita da un quadro di Hezbollah noto come “lo Sciacallo sciita”, Imad Mughniyeh, ucciso a Damasco al numero 17 di via Nisan, in una operazione israeliana di due anni fa. Hezbollah nel 2006 diventerà l’unica organizzazione che abbia davvero “sconfitto” Israele a forza di rapimenti, bombardamenti, smembramenti di corpi e ricatti. Israele ha lasciato il Libano nel 2000. In una notte, ridenti e piangenti, i soldati israeliani abbandonarono la “striscia di sicurezza”. Effi Eitam, comandante del battaglione libanese, disse all’allora primo ministro Ehud Barak quando ricevette l’ordine di sgombrare: “Non credere di portare i soldati via dal Libano, stai portando il Libano in Israele”. Stava portando l’Iran in casa. Da allora tutta la Galilea ebraica, dove viverci o è una necessità di poveri oppure è una scelta ideale e di vita, è stata bombardata a tappeto da Hezbollah. Secondo Bergman il countdown è impossibile da comprendere senza il caso di Ron Arad, il giovane pilota israeliano che precipitò nel 1986 presso il porto libanese di Tiro e che fu acquistato letteralmente dagli iraniani per 300 mila dollari. L’ultima foto di Ron risale al 1991, ha una lunga barba e il volto sfinito da prigioniero torturato. “Da allora Teheran e le sue carceri popolarono le fantasie e gli incubi degli israeliani”, dice Bergman. Come dice un ex ufficiale del Mossad, “mai così tanto nella storia dell’uomo sono state spese energie per ritrovare una persona scomparsa”. La guerra agli ebrei arriva in America latina. 1992, marzo, una bomba uccide trenta persone all’ambasciata israeliana di Buenos Aires. Due anni dopo, ai primi giorni di luglio, i servizi israeliani notano una “insolita frenesia” nel corpo diplomatico iraniano nei paesi del sud America, ma non trovano una spiegazione. La risposta arriva alle dieci di mattina del 18 luglio, quando un camioncino imbottito d’esplosivo distrugge la sede dell’Associazione ebraica di Buenos Aires. Ottantacinque i morti. Il mandante è l’Iran, gli esecutori una cellula di Hezbollah. Da Israele arrivano due aerei, con a bordo 90 persone: investigatori, agenti del Mossad, personale specializzato in soccorsi con esperienza in terrorismo. Intanto anche dentro all’Iran ci sono scoppi di odio antiebraico. Tredici ebrei tra scriba, maestri di scuola, rabbini, chi proveniente da Isfahan, chi da Shiraz, il cuore dell’antica Persia, vengono gettati nelle carceri iraniane con l’accusa di “spionaggio”. Nel 2002 la mano di Teheran arriva sempre più vicina allo stato ebraico. La nave Karin A è un vascello carico di brutti presagi, con 50 tonnellate di armi che per indirizzo avevano Gaza. Le casse portano scritte in farsi, la lingua dell’Iran. Le armi iraniane includevano missili, mortai e tonnellate di esplosivo C-24 che si usa negli attacchi suicidi. Risale al 1992, poco dopo l’attacco a Buenos Aires, la prima segnalazione dell’intelligence israeliana sui movimenti nucleari interni all’Iran. Vent’anni dopo il quaranta per cento delle risorse del Mossad sono devote al file “Iran”. “Se Israele vuole disarmare l’Iran prenderà una decisione entro sei mesi o al massimo un anno. Israele non accetterà mai, a nessuna condizione, che Teheran si doti del nucleare, lo stato ebraico non può contenere l’Iran atomizzato”. Secondo Bergman adesso ci sono cinque scenari possibili: “L’attacco israeliano, l’attacco americano, americani e israeliani che attaccano insieme, l’Iran che rinuncia all’atomica e un cambio di regime a Teheran. Poiché il secondo e il quinto scenario sono molto improbabili, il primo è il più possibile. L’America, dopo l’Iraq, non ha la forza di un’operazione preventiva simile e certamente Obama non vorrà attaccare prima della rielezione. Per Israele è troppo tardi. Lo stato ebraico preferirebbe agire con gli americani, ma la visione israeliana è plasmata da tre lezioni dell’Olocausto: Israele è lo scudo degli ebrei, ci saranno sempre nemici degli ebrei e i non ebrei non ci soccorreranno. Quindi Israele agirà anche senza americani se ritiene di dovere farlo. Israele ha fatto capire al mondo che aderisce ancora alla ‘dottrina Begin’, implementata per la prima volta nel 1981 con il bombardamento del reattore iracheno di Osirak. E sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale le lezioni dell’Olocausto continuano a guidare i leader israeliani. Israele ha le capacità militari per ritardare di cinque anni il programma iraniano. E lo strike avrebbe soprattutto un effetto psicologico devastante. Immagina di essere uno scienziato a Teheran il giorno dopo lo strike. Chi vorrà ancora lavorare al progetto quando tutto il tuo lavoro è andato perduto?”. Bergman pensa che questo countdown potrà concludersi soltanto in due modi: la fine d’Israele o del regime iraniano. “Questa guerra dei trent’anni è come un grande vulcano pieno di lava. Presto ci sarà una grande conflagrazione”.

(quarto di una serie di articoli. I primi tre sono usciti il 4, l’8 e il 10 febbraio e sono disponibili su informazione corretta, oltre che sul Foglio)


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Quarantacinque anni dopo
Israele e Iran verso la deflagrazione in una nuova Guerra dei sei giorni


di Niall Ferguson15 Febbraio 2012

Gerusalemme – Probabilmente si respirava la stessa atmosfera di oggi nei mesi che precedettero la Guerra dei sei giorni, nel 1967, quando Israele lanciò il suo efficacissimo attacco preventivo contro l’Egitto e i suoi alleati. Quarantacinque anni dopo, nel mirino del piccolo paese che costituisce l’avamposto più orientale della civiltà occidentale è finito l’Iran.
Ci sono cinque ragioni – mi dicono – per le quali Israele non dovrebbe attaccare:
1. Gli iraniani potrebbero reagire con veemenza, chiudendo lo stretto di Hormuz e scatenando il terrorismo a Gaza, in Libano, in Iraq.
2. L’intera regione sarebbe messa a ferro e fuoco dai musulmani, inferociti; la Primavera araba si tramuterebbe in un Inverno islamico.
3. L’economia globale subirebbe il colpo durissimo: il rincaro del petrolio
4. Il regime iraniano verrebbe rafforzato, essendo stato attaccato proprio da quei sionisti che la sua propaganda demonizza di continuo.
5. Un Iran dotato di armi atomiche non è nulla di cui preoccuparsi, perché gli stati che acquisiscono capacità atomiche diventano più responsabili e meno inclini al rischio.
Io vi dico che questi argomenti sono sbagliati.
Esaminiamoli uno per volta.
Il pericolo di una rappresaglia. Gli iraniani dovrebbero presumibilmente fronteggiare non una, non due, ma tre portaerei statunitensi. Due si trovano già nel Golfo Persico: la CVN 72 Abramo Lincoln e la CVN 70 Carl Vinson. Una terza, la CVN 77 George H.W. Bush, si dice che stia giungendo da Norfolk.

Sì, lo so che il presidente Obama è un santo e nobile uomo di pace che impiega aerei senza pilota per uccidere nemici dell’America in quantità senza precedenti, però solo dopo aver lottato con la propria coscienza per almeno... dieci secondi.

Ma immaginatevi la scena che mi è stata descritta una volta da un generale a quattro stelle. Non sono le proverbiali tre antimeridiane, bensì le undici di sera alla Casa Bianca (le 7 di mattina in Israele). Squilla il telefono.
Il comandante in capo delle forze armate: “Signor presidente, abbiamo informazioni credibili che l’aviazione israeliana è in volo, ed è a un’ora di distanza dagli impianti iraniani sospettati di attività nucleari”.
POTUS (acronimo per Presidente degli Stati Uniti): “Dannazione. Cosa devo fare?”
Comandante in capo: “Signor Presidente, desidero raccomandarle di fornire agli israeliani tutto l’appoggio necessario per rendere minime le conseguenze di un’eventuale rappresaglia iraniana”.
POTUS: “Ma quei [censura] hanno fatto da soli. Hanno agito alle mie spalle, maledizione”.
Comandante in capo: “Vero, signore”.
POTUS: “Perché mai dovrei alzare un dito per aiutarli?”.
Comandante in capo: “Perché se gli iraniani chiudessero lo Stretto di Hormuz, il barile schizzerebbe oltre i duecento dollari”.
POTUS [dopo una pausa]: “Un momento! [a bassa voce] Come vanno i sondaggi in Florida?”
David Axelrod [anche lui a bassa voce]: “Maluccio”.
POTUS: “Ok generale, raduni le armi anti-bunker”.
L’eruzione dell’intero mondo musulmano. Tutti i coccodrilli dell’Africa non potrebbero pareggiare le false lacrime che verserebbero le potenze sunnite della regione qualora le ambizioni nucleari iraniane venissero bloccate.
Una recessione in doppia cifra. Il prezzo del petrolio sta calando, grazie agli sforzi congiunti dei capi di governo europei per uscire dalla Grande Depressione. Una guerra Israele-Iran li farebbe aumentare, ma i sauditi sono pronti a innalzare la produzione per attenuare l’entità del rincaro.
La legittimazione della teocrazia. Per favore, mandatemi la lista di tutti i regimi che, negli ultimi sessant’anni, siano sopravvissuti a un’umiliazione militare come quella che soffrirebbe Teheran. La sopravvivenza di Saddam Hussein dopo la prima guerra del Golfo è il solo caso che mi viene in mente – poi, nel secondo round, lo abbiamo preso.

Il senso di responsabilità di un Iran nucleare. Dovremmo credere che una teocrazia sciita rivoluzionaria si trasformerebbe, dall’oggi al domani, in una sobria e calcolatrice seguace del realismo diplomatico... proprio perché è venuta in possesso di armi di distruzione di massa? Sarebbe come se, qualora gli scienziati tedeschi avessero realizzato una bomba atomica tanto velocemente quanto il Progetto Manhattan, la Seconda guerra mondiale fosse terminata con un negoziato mediato dalla Società delle nazioni.

Il vero pericolo oggi in Medio Oriente non è quello di una Guerra dei sei giorni tra Israele e Iran. E’ quello che l’inerzia dell’Occidente permetta ai mullah di Teheran di entrare in possesso dell’arma nucleare; non ho alcun dubbio che ne trarrebbero il massimo del vantaggio. Avremmo permesso la creazione di un impero basato sul ricatto.
La guerra è un male. Ma talvolta una guerra preventiva può essere un male minore del mantenere la pace. Le persone che non lo sanno sono quelle che ancora negano quel che finirebbe per costarci un Iran armato di atomiche.
Mi sembra la vigilia di una distruzione creativa.

tratto da The Daily Beast
traduzione di Enrico De Simone


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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

Mah. Trovo questo articolo sinceramente delirante. --L


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RE:  [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

lucaberta ha Scritto:

Mah. Trovo questo articolo sinceramente delirante. --L


Ma effetivamente qui tra "deliri vari" è sempre più arduo restare impassibili.... restano esclusi Gli Eco-Convinti.


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http://www.informazionecorretta.it/main....p;id=43436

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/02/2012, in prima pagina, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Il giorno del giudizio in Israele ".

Una fredda mattina di fine gennaio, le ambulanze sfrecciano dentro Haifa, il porto più grande d’Israele. C’è appena stato un attacco missilistico con una “bomba sporca”, armata al cesio radioattivo 137. Medici e paramedici decontaminano i superstiti, le autorità informano il pubblico: “L’inimmaginabile” è successo nel cuore dello stato ebraico. L’esercitazione, nota come “Nube oscura”, ha fatto parte del piano dell’Home Front Command per preparare il paese in caso di guerra con l’Iran. Il dottor Lion Poles, dal ministero della Sanità, ha detto che si tratta di uno “scenario ipotetico ma plausibile”. Teheran avrebbe tre obiettivi primari il giorno dopo quello in cui Gerusalemme avrà attaccato le centrali nucleari iraniane: il reattore atomico di Dimona, il porto e le raffinerie di Haifa e l’area di Zakariya, dove è stoccato l’arsenale missilistico dello stato ebraico.
Nel 1991, durante la Guerra del Golfo, Eyal Eisenberg faceva parte di un team segreto stazionato nei pressi della centrale di Dimona. Aveva il compito di rilevare la presenza di materiale tossico nei missili Scud lanciati da Saddam Hussein. Oggi Eisenberg ha il compito di proteggere la popolazione israeliana in caso di guerra con l’Iran. Il generale ha appena detto che “Haifa sarà sommersa da 12 mila missili”. Israele è avvezzo ai missili. Dal 1948, l’anno della fondazione dello stato, ne sono caduti sul suo territorio oltre 60 mila. In questo momento ce ne sono 200 mila puntati su Tel Aviv. Mai è stata tanto forte la potenza di fuoco dei terroristi nella regione. Rafi Eitan, 85 anni e leggendario operativo del Mossad (comandò i servizi segreti israeliani che rapirono, a Buenos Aires, il gerarca nazista Adolf Eichmann), ha detto che “il fronte interno non è pronto”.
E’ anche l’opinione dell’ex direttore del Mossad, Meir Dagan. Il premier Benjamin Netanyahu è convinto che per Israele sarà dura, ma il prezzo di un Iran nucleare è più alto. L’Iran ieri ha annunciato di aver prodotto le prime barre di combustibile nucleare “autarchiche”, ovvero costruite internamente. Una prova di forza del regime a cui ha partecipato anche il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, e che conferma i peggiori timori d’Israele: Teheran non è dissuasa dall’interrompere il programma atomico. Anzi, dice al mondo che può fare a meno dell’assistenza straniera. Ehud Barak, ministro della Difesa, ha detto che “Israele non sarà distrutta” e che in caso di guerra “se la gente rimarrà nelle proprie case ci saranno soltanto 500 morti”. Al suo ministero dicono “mille”, comunque tantissimo per una popolazione così piccola. Esiste un solo calcolo possibile. Nel 2006 Hezbollah lanciò su Israele quattromila missili che causarono quaranta vittime fra i civili israeliani. Un morto ogni cento razzi. Se ne lanciano 12 mila, potrebbero esserci mille vittime. Nella recente esercitazione “Turning Point 5” Hamas, Hezbollah e Iran lanciano diecimila missili su Israele, che uccidono “centinaia di civili, ne feriscono ventimila e costringono centinaia di migliaia di persone a lasciare le proprie case”. La situazione è talmente drammatica che, stando a una rilevazione condotta dall’Università di Tel Aviv, un trenta per cento della popolazione con doppio passaporto sarebbe disposto a lasciare il paese.
Ieri Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano, ha pubblicato una lista di “città-rifugio” dove è meglio vivere “in caso di emergenza”. Nel 2006 un milione di abitanti fu costretto a rintanarsi nei rifugi per oltre un mese. Può Tel Aviv, dove vive il sessanta per cento della popolazione israeliana, affrontare uno scenario che Yedioth definisce da “giorno del giudizio”? Israele ha investito molto nella difesa balistica con il “Progetto Muraglia” (“homa” in ebraico), per fermare i missili iraniani Shahab 3 che possono arrivare in Israele e portare 1.150 chili di dinamite e materiali chimici. Ma la miglior difesa resta la preparazione della popolazione. Yaakov Katz, corrispondente militare del Jerusalem Post e autore del libro in uscita “Israel vs. Iran”, su questo è a colloquio con il Foglio. “Con l’Iran sarà diverso rispetto all’Iraq nel 1981 e alla Siria nel 2007, quando Israele bombardò i loro reattori nucleari e non ci fu rappresaglia. Israele dovrà affrontare una guerra regionale. Hezbollah ha 50 mila missili e l’Iran ne ha una certa quantità di letali che possono raggiungere Tel Aviv. Poi ci sono Hamas, il Jihad islamico e la Siria.
Cosa farà Bashar el Assad? Potrebbe partecipare al conflitto per distogliere l’attenzione sulla crisi interna. Sarà una guerra devastante, ma Israele resisterà e sarà un prezzo minore rispetto a un Iran nuclearizzato. Non sarà come il 1973, quando i paesi arabi potevano sconfiggere Israele sul campo. In questo caso Hamas e Hezbollah non possono conquistare un solo metro di terra, ma possono terrorizzare la popolazione ebraica”. C’è il pericolo di armi chimiche: “La Siria ne è fra i massimi produttori mondiali. Finora Israele riteneva razionale il regime di Damasco. Ma Assad continuerà a esserlo anche ora che è in crisi? Potrà passare armi chimiche a Hezbollah. E se i magazzini di armi batteriologiche cadessero in mani di terroristi? Israele per la prima volta affronterebbe un’entità non statale terroristica dotata di armi di distruzione di massa”. Molte esercitazioni sono denominate “Nbc”: pericolo nucleare, biologico e chimico. La Siria è “il paese arabo più avanzato nella produzione di armi chimiche”, ha detto un rapporto del Centro di studi strategici dell’Università Bar Ilan, secondo cui la Siria ha prodotto centinaia di tonnellate di armi chimiche e nei suoi depositi ha accumulato bombe riempite di gas Sarin e di un altro gas letale, il VX. Israele ha messo a punto sirene per i missili che possono portare armi “sporche”.
L’idea è quella che botulino, antrace e agenti patogeni di altre malattie, fino ai veleni, diventino armi utilizzate insieme con l’esplosivo. Cento grammi di gas mostarda bastano a uccidere cinquecento israeliani. L’esercito stima che Hamas e Hezbollah abbiano 1.600 missili “precisi”, in grado di colpire obiettivi mirati a centinaia di chilometri di distanza. Gerusalemme potrebbe essere colpita con una precisione tale da escludere la moschea di al Aqsa, sacra all’islam. Per dirla con Matan Vilnai, ministro delle Retrovie, “l’edificio del ministero della Difesa al quindicesimo piano non rimarrà in piedi”. Ci si aspettano, come nel 2006, bombe Hezbollah di fabbricazione siriana in cui le biglie vanno in ogni direzione e amplificano la capacità della carica esplosiva. A rischio è la centrale elettrica di Reading.
Un missile paralizzerebbe il paese. Secondo un rapporto del Comando militare delle retrovie, pubblicato dal quotidiano Israel Hayom, l’erogazione di acqua, gas e corrente elettrica sarebbe bloccata. Israele prepara i rifugi. Questa settimana il ministero degli Esteri ha fornito alle ambasciate di Tel Aviv una lista di rifugi che i corpi diplomatici stranieri potranno utilizzare. Soltanto a Tel Aviv ce ne sono 240. La stazione di Gerusalemme è in grado di accogliere cinquemila persone. Agli israeliani sarà chiesto di avere a portata di mano “una valigia con documenti personali, medicine, vestiti, calze e scarpe, un radio-transistor, un telefono cellulare, cibo, bevande”. La guida al buon uso della maschera antigas si chiama “Lohama Kimit”: guerra chimica. Molte famiglie sono corse ai ripari. La milionaria Vivian Rakib nella sua casa di Tel Aviv ha fatto costruire tre livelli sotterranei per un’autosufficienza di sei mesi. Un bunker privato costa 100 mila dollari. Anche la milionaria Shari Arison lo ha fatto costruire in attesa dell’Armageddon. Dopo il 2006, il paese è stato munito di tremila sirene. Ci sono teatri, come l’Habima di Tel Aviv, che sotto terra accoglieranno migliaia di persone. A Safed si è costruito il primo ospedale-bunker per bambini. Yedioth ha rivelato che un ospedale sotterraneo, protetto dalla minaccia di armi chimiche o batteriologiche, è stato segretamente costruito nel nord di Israele, presso Nahariya.
Per accedervi bisogna passare attraverso una rete di tunnel, ha un sofisticato sistema di filtraggio dell’aria e dell’acqua. Il governo dispone di una “località segreta” nelle montagne della Giudea, fuori Gerusalemme. Un nuovo sistema d’allarme, nel deserto del Negev, calcola con esattezza la traiettoria d’un missile. In una frazione di secondo, tramite sms, avviso audio e illuminazione del display, il programma invia un allarme a tutti i telefonini in quella zona. Piani di evacuazione sono approntati per Ramat Gan, la popolosa periferia di Tel Aviv su cui caddero i razzi nel 1991. Il Negev può ospitare le tendopoli. Fino a mezzo milione di israeliani potrebbero rifugiarsi nelle colonie ebraiche della Cisgiordania. Il comandante delle retrovie, generale Yair Golan, ha spiegato che “le città potrebbero trasformarsi in campi di battaglia” e che masse di persone sarebbero costrette a scappare in Samaria, definita in codice militare “rifugio nazionale”.
Gli ospedali hanno piani per le emergenze. Le industrie più strategiche, come le banche e la compagnia telefonica Bezec, si sono dotate di tecnologie di sostituzione in caso di collasso. Ogni casa a Kiryat Shmona, nell’unghia più a nord della Galilea, ha finestre che per precauzione sono incerottate in lungo e in largo, cosicché i vetri non schizzino da tutte le parti quando l’immancabile proiettile arriva insieme allo spostamento d’aria. Qui, nell’estate 2006, sono caduti mille missili. Adesso se ne aspettano molti di più. I 212 rifugi pubblici sono restaurati. Alcuni rifugi hanno tv e aria condizionata, altri sono decadenti e hanno l’aria soffocante. All’ingresso di “Kiryat Katyusha”, come è stata ribattezzata la città, il governo ha fatto costruire un Monumento alla pace. Gli artisti non hanno trovato altra ispirazione che dipingere carri armati di giallo, rosso e blu. I bambini ci si arrampicano. In attesa della sirena che annuncerà il prossimo katyusha. E la fine del countdown fra Teheran e Gerusalemme.

Ultimo di una serie di articoli. Le precedenti puntate sono uscite il 4, l’8, il 10, l’11 e il 14 febbraio e sono disponibili su www.ilfoglio.it e su Informazione Corretta


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visto se viviamo in regime di matrice comunista con relativo colpo di stato "legale" un pò di storia non nuoce.......

http://www.loccidentale.it/node/113707

100 anni di bolscevismo si possono pure ricordare ma non festeggiare



Luca Negri19 Febbraio 2012

Allora, abbiamo arrotolato e messo in soffitta il Tricolore esposto gagliardamente per tutto il 2011. Dopo aver celebrato i centocinquant’anni d’unità nazionale, ci chiediamo: niente da celebrare nei prossimi mesi? Qualche ricorrenza significativa da rimembrare pubblicamente? Un centenario ci sarebbe; non da festeggiare, però. Uno spunto di riflessione, un’interessante lezione di storia.
Perché nel gennaio del 1912 vide luce il Partito Operaio Socialdemocratico Russo (bolscevico), quello che poi divenne il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, detto Pcus con l’acronimo italiano.
La creatura di Lenin nacque, è noto, per scissione; i bolscevichi, si liberarono finalmente della minoranza menscevica che tarpava le ali alla rivoluzione comunista. L’evento fu fecondo di storia, ovvero di disgrazie. Fu proprio Hegel, uno dei filosofi patrigni di quella cultura, a scrivere che la storia sembra un mattatoio. I boscevichi vollero fare storia, e ci riuscirono, per quasi ottan’anni, con meno di dieci leader (quasi tutti decisivi per gli scenari politica del secolo scorso). Come riuscirono a conquistare la Russia, a edificare un impero con qualche decennio di vita?
Furono abili, coniugando più Machiavelli e Gengis Kahn che mettendo in pratica Marx. Lenin, personalità certamente carismatica, con tratti del tipo nichilista profetizzato da Dostoevskij, riuscì ad imporre la sua versione del marxismo, a trasformarla in dogma. Il Partito era l’avanguardia della Classe, la Classe era la coscienza del proletariato; era il Partito, ad evere le idee chiare, con in mano la risposta all’interrogativo sul “che fare”. Occorreva saltare la rivoluzione borghese e democratica per fare subito quella proletaria.

La Classe doveva ubbidire, tutto il proletariato doveva ubbidire, anche quello che non intendeva riscoscersi nella Classe. Ovvio che il dovere d’obbedienza fosse estesa al popolo tutto, al clero, alla nobiltà (che andava azzerata per fare spazio alla nuova aristocrazia). Non conveniva intralciare il progredire della storia e il cammino del socialismo; provandoci si finiva comunque per essere utili, come minimo con la funzione di schiavo in qualche gulag.

Dunque, i bolscevichi, un po’ marxisti impazienti, un po’ giacobini fanatici, un po’ nichilisti apocalittici, (insomma, un misto della peggiore Europa d’oriente e d’occidente) presero il potere nell’ottobre del 1917. Non si trattò di una rivoluzione, ma di un colpo di Stato che pilotò la Rivoluzione di febbraio verso esiti totalitari. Il regime zarista era una realtà superata, perfino in un paese ancora in gran parte medioevale come la Russia: un cambiamento radicale era necessario.

Ma tutto il fenomenale fermento politico, culturale, finanche spirituale ed artistico (basti pensare ai poeti Blok e Majakovskij) che agitava il paese fu imprigionato, imbrigliato dalla violenza di un pugno di avventurieri senza scrupoli ma pieni di ideali.

L’Ottobre fu un atto di forza permesso dall’aver infilato gli uomini giusti nei posti giusti, dall’aver conquistato la fiducia di un buon numero di operai riuniti in soviet. Probabilmente servirono soldi, ma non mancavano ai bolscevichi; in parte rapinati con attacchi terroristici (nei quali si rodava il talento di quello che sarebbe diventato Stalin), in parte inviati da estimatori esteri.

A proposito di aiuti stranieri, è utile ricrodare che fu la generosa Germania prussiana a provedere gentilmente al il ritorno di Lenin in patria. All’esule fu permesso di transitare inpunente in treno attraverso i territori del secondo Reich per tornare in Russia; i tedeschi tenevano molto al ruolo destabilizzatore del capo bolscevico.

La missione riuscì perfettamente: la Russia si arrese alla Germania che potè dedicarsi al fronte occidentale e perdere comunque la guerra. I conti si fecero però neanche trent’anni dopo, soprattutto a Stalingrado. Poi Berlino fu anche premiata con il Muro. Chissà, se i prussiani avessero immaginato il futuro, forse avrebbero fatto deragliare quel treno…

Invece il comunismo marxista-leninista sopravvisse al suo inventore, si estese nel mondo, divenne quasi una religione. Più di una religione civile, ancor più messianica e pervasiva, con suoi riti propri, testi sacri, tribunali contro le eresie. Sempre, così almeno dicevano e molti ci credevano, per il bene dell’umanità. Altra profezia di Dostoevskij, quella del Grande Inquisitore: la società che realizza storicamente il cristianesimo ma non può accettare la presenza reale di Cristo.

Qualcosa in comune con la filosofia di Hegel, una trinità (tesi – antitesi – sintesi) che poteva far a meno del Padre e del Figlio: tutto il potere allo Spirito. Come ai Soviet, o meglio al Partito che pretendeva di rappresentare Soviet, Classe e proletariato, dunque lo Spirito del mondo.

Niente da festeggiare, allora, per i cent’anni del boscevismo. Non perché sia defunto ufficialmente da un po’, anzi qualche suo ingrediente prova ancora a far lievitare gli eventi mondiali, a fare storia, macello (non in Russia, ovunque nel mondo). Abbondano minoranze che vogliono cavalcare masse in rivolta, nichilisti apocalittici, moralisti giacobini, mistici senza Dio incarnato. Il comunismo si è suicidato, come previsto da Augusto Del Noce, ma la decomposizione del suo cadavere brulica di vita.




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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

La nuova "bolla" mediadica o il nuovo modo di far conoscere?
Cmq da non perdere e da guardare....
http://www.youtube.com/watch?feature=pla...4MnpzG5Sqc


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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

http://www.informazionecorretta.it/main....p;id=44449

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/05/2012, a pag. 3, l'articolo di Pio Pompa dal titolo "I nuovi siti iraniani sono stati trovati: lo strike torna sul tavolo".

Era il 10 aprile scorso quando il Foglio pubblicò, in esclusiva, la notizia secondo cui l’Iran avrebbe segretamente realizzato almeno tre nuovi siti nucleari sotterranei fino ad allora del tutto sconosciuti.

Dopo meno di un mese la medesima fonte d’intelligence araba, all’origine di quella informazione, ha di fatto asseverato, facendo riferimento a documenti ora in possesso dei servizi israeliani, l’avvenuta individuazione, all’interno di una specifica area del Dasht e Kavir (il grande Deserto salato iraniano), di tali siti. Una scoperta questa di fondamentale importanza non solo per l’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica), fino a venerdì convinta che fosse il sito di Parchin la priorità assoluta, ma soprattutto per i piani militari di Gerusalemme sui quali incombeva la pesante alea, nell’eventualità di un attacco contro l’Iran, che potessero sfuggire alla distruzione proprio i siti nascosti destinati all’allestimento dell’atomica.

Una eventualità che era una delle ragioni principali addotte sia dall’Amministrazione Obama sia dalla fronda interna a Israele guidata dall’ex capo del Mossad Meir Dagan, dall’ex capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi e dall’ex capo dell’intelligence Yuval Diskin, per coprire il loro sostanziale appeasement sul nucleare iraniano. Ora, con la scoperta documentata dei nuovi siti sotterranei, dovremmo assistere a un rimescolamento di carte sulla vicenda dell’atomica iraniana. “Non fosse altro per il fatto – conferma al Foglio la fonte d’intelligence – che Teheran, raggirando l’intera comunità internazionale, si sia affrettata a realizzare, tra la fine del 2009 e l’inizio del 2012, un enorme e invisibile hub nucleare nel cuore del Deserto salato, collegato e alimentato attraverso un efficiente sistema di grandi gallerie, esclusivamente destinato al completamento, entro due mesi, di almeno quattro testate atomiche”. Di conseguenza, ogni materiale sensibile sarebbe stato trasferito da Parchin e altri siti nell’hub nucleare del Dasht e Kavir, trasformando le trattative sulle ispezioni della Aiea in una presa in giro.

“Se non che – aggiunge la nostra fonte – lo sconcerto israeliano ha raggiunto l’apice nell’apprendere di come Washington fosse già al corrente, e ben prima dei recenti colloqui di Istanbul, di queste nuove infrastrutture nucleari. Evitando, tuttavia, di denunciarne l’esistenza”. Di qui il fondato convincimento che, nonostante tutto, non assisteremo a stravolgimenti miracolosi sul dossier del nucleare iraniano fortemente influenzato dalle trattative segrete in corso tra il regime degli ayatollah e gli Stati Uniti. Trattative i cui effetti, dopo quanto avvenuto nei recenti colloqui di Istanbul, rischiano di condizionare pesantemente anche il prossimo meeting dei 5+1 previsto a Baghdad il 23 maggio.

Ma il tempo per Teheran, dopo la scoperta sulla esatta collocazione del sito di allestimento dell’atomica, sembrerebbe volgere al termine. Secondo il nostro interlocutore il premier israeliano, Bibi Netanyahu, starebbe per rompere gli indugi rendendo assai probabile un attacco contro l’Iran.

D’altro canto i sessanta giorni che, in base alle stime del ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, separano il regime iraniano dall’avere l’atomica, rappresentano veramente lo spazio di un mattino. “Un Iran dotato della bomba atomica – ha ribadito sabato l’ex direttore del Mossad, Amos Yadlin – sarebbe più pericoloso di un attacco militare contro i suoi siti nucleari. Come può chi non riesce a contrastare ora la sofisticata e minacciosa strategia iraniana aspettare di farlo dopo che l’Iran sarà una potenza nucleare?”.


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