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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
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Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 02/12/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo "Per difendere Damasco la Russia stravolge le sue alleanze arabe (e non)".
Sulla Siria, invitiamo a leggere l'analisi di Mordechai Kedar pubblicata in altra pagina della rassegna.
Roma.
La Russia invia navi da guerra a protezione del regime siriano, sfidando così la Turchia, che da mesi combatte una guerra sotterranea con i propri commando che appoggiano le azioni militari della Free Syrian Army contro le milizie del regime di Bashar el Assad. La crisi siriana ha creato uno scenario che non si vedeva dal 1917: Russia e Turchia su fronti militari contrapposti, con una aggravante: l’azione militare turca è condotta assieme a militari sauditi, libici, del Qatar e degli Emirati arabi uniti. Così per la prima volta dal 1956 la Russia si colloca in contrasto aperto con molti paesi arabi. Fino alla primavera araba, Vladimir Putin e Dmitri Medvedev hanno proseguito inerzialmente la strategia di Nikita Kruscev e Leonid Breznev, tesa a dare sempre e comunque copertura diplomatica e militare al “blocco arabo”, in funzione anti americana e anti israeliana, arricchendola con l’appoggio al progetto nucleare iraniano. La Siria era il baricentro di questa strategia e ora Mosca, pur di difenderla, consuma una frattura drammatica, politica e forse anche militare, con la Lega araba, sconvolgendo l’intero scenario mediterraneo.
L’incrociatore portaerei russo Kuznetsov e l’unità antisommergibile Chabanenko attraccheranno il 10 dicembre a Latakia: è un chiaro avvertimento ai progetti turco-arabi.
Si fa sempre più concreta infatti la possibilità che la Lega araba e la Turchia – con il tacito assenso della Nato – attuino una “escalation umanitaria”: alle azioni “coperte” di commando turco-arabi al fianco dei disertori siriani potrà essere aggiunta un’invasione che sottragga a Damasco una fascia di territorio, inclusa addirittura, secondo notizie pubblicate dai quotidiani turchi e confermate da fonti israeliane, anche la “seconda capitale” siriana: Aleppo. Secondo il quotidiano egiziano al Ray al arabi, 600 militari libici del Comitato di transizione agli ordini del comandante militare di Tripoli Abdelkarim Belhaj, sarebbero già penetrati in Siria, attraverso il confine della Turchia per preparare questa invasione.
Sul fronte opposto, sono stati inviati a contrastarla – su disposizione iraniana – 4.500 mujaheddin dell’Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr.
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
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Per salvarci dalla crisi
Riduciamo lo Stato e smettiamo di giocare a "tutta la moneta del mondo"
di John Galt 5 Dicembre 2011
Per come vengono generalmente presentate, le cause delle crisi economiche sono spesso destinate a rimanere del tutto incomprensibili. Durante una depressione, si dice, le persone perdono l'incentivo a spendere il proprio danaro, imboccando con decisione la strada del risparmio. A seguito di ciò, la domanda aggregata (ente superiore, dotato di autonoma capacità decisionale) è destinata a contrarsi e le aziende, in crisi di ricavi, sono costrette a licenziare i propri dipendenti ed a chiudere.
Partendo da questi presupposti, parrebbe del tutto banale indicare la soluzione: se la gente ricominciasse gagliardamente ad utilizzare il proprio bancomat nei POS della città, lo stallo potrebbe, di fatto, risolversi da sé. Tanto, si argomenta, è sicuro che i soldi da qualche parte ci sono (non possono mica sparire, i soldi): è sufficiente tirarli fuori. E dunque, è la conclusione, un piccolo sforzo di buona volontà da parte di ciascuno risolverebbe, alla radice, il problema.
Per inciso, se questa tesi dovesse apparire anche solo un po' naive, conviene qui ricordare che attorno ad essa è stata, in buona parte, costruita la leggenda di J.M. Keynes (con la variante che, se le persone, com'è molto probabile, dovessero non decidersi alla spontanea apertura dei cordoni della borsa, allora sarebbe lo stato a dover intervenire, oliando le presse).
Già, ma se è tutto così semplice, perché mai le crisi continuano a ripetersi con così sinistra puntualità, sconvolgendo radicalmente le nostre vite? Siamo, forse, singolarmente prese, creature talmente irresponsabili che ci viene spontaneo, per gretta avarizia, di rifiutare il nostro contributo alla ripresa collettiva?
A questo punto del suo cammino negli aridi territori dell’economia, il pensiero tende naturalmente a concentrarsi sulle abitudini di spesa del vicino di casa. Sì, proprio lui, quello che c'ha i milioni in banca, ma capirai se li spende per risanare l'economia. Epperò, anche questo momentaneo cedimento ad un approccio di stampo così marcatamente riduzionista (ed in pesante deficit di neutralità) finisce presto per dimostrare tutti i suoi limiti: perché magari è pure vero che il confinante c’ha parecchio liquido, ma è altrettanto certo che gli ordini di grandezza delle cifre in ballo sono (in qualche misura, almeno) più estesi di quello.
Appurato, dunque, che il facoltoso dirimpettaio non potrebbe, da solo, ed a colpi di televisori, auto, lavatrici e vacanze, salvare il mondo, non resta che spostare l'attenzione verso il settore pubblico ed il sistema creditizio. La responsabilità della crisi, si finisce con il convincersi, è della politica e del mondo della finanza.
Attorno a questi ultimi soggetti, di solito, la lente indagatrice del pensiero indugia, sospettosa, molto a lungo. E non a torto, naturalmente, perché è proprio al loro interno che si annida il virus della crisi. Ma dove, esattamente?
Nella ingordigia della casta? Anche, ma solo in parte. Nei bouns stratosferici dei super managers? Ma non scherziamo! Nella mancanza di regole, regolatori, regolati? L’esperienza ed il senso comune suggeriscono che la possibilità di aggirare le normative esistenti (in questo, come in tutti gli altri ormai iper regolamentati settori dell’umano interagire) sia inversamente proporzionale alla loro quantità (e complessità).
Nella stretta creditizia praticata dalle banche?
Certo, quest’ultima non aiuta, ma anche gli istituti di credito finiscono necessariamente con l’essere condizionati dalla situazione generale. Nella sfrontata aggressività degli speculatori? Boh … loro fanno il proprio mestiere: scommettono in proprio su un risultato al cui verificarsi attribuiscono probabilità accettabili. In questo senso, agiscono un po’ come degli spazzini, finendo spesso con l’integrare, con dosi suppletive di coscienza critica, il funzionamento dei meccanismi di controllo del sistema.
Difficile dire a che punto saremmo arrivati, oggi, se un manipolo di pervicaci scommettitori, qualcuno ai limiti dell’autismo, non si fosse accanito contro la dilagante aberrazione dei mutui subprime e dei prodotti derivati ad essi associati, copiosamente sfornati, per anni, sotto gli occhi miopi di innumerevoli agenzie di controllo (e di rating) ed all’ombra delle tranquillizzanti dichiarazioni del governatore della Fed. E non è, forse, incoraggiante vedere le minacciose ganasce della scommessa globale inseguire da vicino chi ha responsabilità politiche, obbligando (legittimando) i Governi a porre finalmente mano al risanamento dei bilanci nazionali, sempre annunciato, ma mai effettivamente perseguito?
Rimane, alla fine, un ultimo posto in cui il pensiero può tentare di scovare le misteriose radici delle crisi: l’etica. Signora mia, si afferma, se tutti questi potenti si mettessero finalmente una mano sul cuore, ed alzassero lo sguardo dal proprio portafoglio, allora sì che le cose ricomincerebbero a funzionare per il verso giusto. Epperò, già nel complice annuire in risposta alle enfatiche considerazioni della persona in coda davanti a noi, sentiamo, nel fondo, come il senso di una speranza tradita già prima del suo formularsi e sappiamo intimamente che, a rincorrere queste chimere, perdiamo tutti il nostro tempo.
Ma allora, se non è colpa del vicino e non c’è modo di individuare la responsabilità dei Governi e dei protagonisti della finanza, come possiamo portare a termine questo goffissimo tentativo di trovare le cause delle crisi? Però però, a ben pensarci, non abbiamo ancora messo il naso nel vicino retrobottega, dal quale sentiamo uscire un molesto rumore di macchinari, accompagnato da un forte odore di inchiostro.
Ci affacciamo curiosi, aprendo con circospezione la porta. Chini su gigantesche presse, decine di uomini si danno da fare alla fioca luce di lampadine impolverate. Stampiamo moneta, rispondono distratti alla nostra, ingenua domanda. Certo che possiamo, ce l’ha detto il Governo, è la successiva risposta. Gli ordini ci arrivano di continuo. Ed anche la terza domanda è soddisfatta.
Poi le dichiarazioni si fanno spontanee. Noi spediamo alle Banche, poi queste ultime ci costruiscono sopra il leverage. Cos’è il leverage? E’ quando noi diamo loro uno ed esse prestano dieci ai clienti. O qualcosa del genere. Quanta ce n’è in giro di questa roba? Tanta. Non mi chieda quanto vale un biglietto di questi: posso solo dirle che un biglietto vale un biglietto. Altro non saprei aggiungere. Oro? Cosa c’entra l’oro? E’, forse impazzito?
Ecco, appunto. Quotidianamente, il sistema creditizio riceve e moltiplica danaro cartaceo creato dal niente, rendendo disponibile credito relativamente abbondante a tassi contenuti. Scambiando questa liquidità per un segnale di disponibilità di risparmio (e cioè, in ultima analisi, di decisioni di spesa differita da parte dei consumatori), fiduciosi imprenditori decidono di fare il loro mestiere: intercettare, domani, i consumi oggi rimandati. Essi danno, dunque, il via a progetti, più o meno rilevanti, di nuovi investimenti, finendo, così, per modificare in modo definitivo la preesistente struttura finanziaria e produttiva.
Ed è esattamente qui che si nasconde il virus cercato così a lungo nel nostro astratto vagabondare. Già, perché il risparmio a suo tempo segnalato era puramente fittizio: nessuno aveva effettivamente rinviato al futuro alcuna decisione di spesa, così che, quando i nostri ignari eroi shumpeteriani potranno finalmente esporre i nuovi, rivoluzionari prodotti sulle bancarelle, troveranno il mercato sorprendentemente vuoto.
Il risultato? Ma guarda un po’ … la più classica delle depressioni: fabbriche chiuse, gente per strada e contrazione della domanda. Toh … siamo tornati esattamente al punto da cui eravamo partiti. Già, ma perché, in definitiva, i Governi stampano la moneta che poi passano al leverage delle Banche? La risposta è, adesso sì, banale: perché puntano a essere rieletti e, per farlo, il modo più diretto è quello di indebitarsi. Dunque: molta ambizione, molta spesa, molti debiti, molto inchiostro, molto credito, molti investimenti, molte fregature.
Cosa fare, allora, per uscirne? Governi tecnici a parte, la soluzione che in questi giorni va per la maggiore a Bruxelles e dintorni è, come si sa, stampare più moneta. Anzi, come direbbe un bambino allargando le braccia in ludica e divertita ed incontenibile espressione di potenza: tutta la moneta del mondo.
Geniale. E qui ci proviamo umilmente noi a dare un suggerimento (banale, per carità, come è ovvio per chi poco, ben poco ne sa): che ne direbbero, lor signori, se procedessimo ad avviare, parallelamente a drastiche riduzioni dei budget di Stati sociali impazziti, una lunga, lunghissima, lenta, lentissima fase di recessione pilotata (e comune a livello europeo), lasciando ai mercati l’arduo compito di riallineare, riconvertendoli, i nostri poveri sistemi produttivi, deformati ormai da decenni di letalissime iniezioni di cellulosa colorata, alle reali aspettative dei loro partecipanti e cioè, in sostanza, di tutti noi? (reintroducendo, al contempo, una fra le più fantastiche invenzioni di ogni tempo, assieme alla ruota e ad Internet: la moneta merce).
Tutto questo significherebbe, tra l'altro, una progressiva cacciata (con ignominia) della politica dalla sfera dell’economia. Sembra una cattiva idea, visto quello che è successo? Arcigni professoroni, pesantemente organici all'attuale sistema, stanno facendo appello al nostro senso di responsabilità, affinché non ci ribelliamo ai prossimi, feroci prelievi forzosi, pur sapendo che essi serviranno solo da tampone, fino alla successiva apocalisse. Molto più onesto sarebbe, invece, prospettare alla popolazione la reale natura delle cose: il calo della domanda non è la causa, ma l'effetto della crisi e, dunque, ulteriori stimoli non faranno che peggiorare la situazione, avvicinando ulteriormente l'economia continentale alla completa sovietizzazione (a braccetto con quella americana).
Costrizione in cambio della calda coperta di uno Stato sempre più pervasivo, contro libertà in cambio di una dolorosa, spontaneissima riorganizzazione: una alternativa epocale, davanti alla quale gli appelli alla responsabilità ed alla solidarietà di tutti sarebbero, una volta tanto, pienamente giustificati. Ecco, il pensiero è arrivato alla fine del suo accidentato percorso.
Quanto precede è banalizzazione di ben più profonde teorizzazioni, inizialmente elaborate da uno sparuto, ma tosto gruppo di economisti austriaci. Già perché oltre al Valzer, alle Palle di Mozart ed al bluff freudiano, quella simpatica nazione ha saputo esportare anche qualcosa di parecchio più convincente.
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Ripensare il Mediterraneo/ 4
C'è Israele a salvare la Grecia
di Costantino Pistilli 10 Dicembre 2011
La Grecia non ha più nulla da offrire all’Europa? Verosimilmente no. Lo Stato declassato da Moody’s, sottovalutato dal sito d’intelligence Stratfor (“Ha perso ogni importanza geo-strategica”) e il primo ad essere buttato giù dall’Euro Tower, potrebbe rivelarsi la Cenerentola del Vecchio Continente. Per due motivi.
Arginare i flussi dell’immigrazione clandestina. La posizione geografica della Grecia la rende tuttora la porta d’ingresso all’Europa per chi desidera entrarvi da est. Secondo i dati riportati da Frontex, l'agenzia che coordina le polizie di frontiera europee, dal 2010 una media di 300 persone al giorno, tutti i giorni, ha raggiunto i Paesi europei passando il confine greco-turco. Ma con le rivolte arabe è aumentato di circa il 50% nei primi mesi del 2011 rispetto allo stesso periodo del 2010 il numero delle persone che ha deciso di abbandonare le proprie nazioni e approdare in Europa passando attraverso la Grecia.
“Dal 2 giungo dello scorso anno più di 38.000 immigrati clandestini sono stati intercettati lungo il confine che divide la Grecia dalla Turchia” ha dichiarato Gil Arias Fernandez, vice direttore di Frontex, aggiungendo un altro dato: “Nel solo mese di ottobre 2011 circa 9.600 immigrati hanno provato ad entrare in Europa attraverso la Turchia. Un flusso superiore del 20% rispetto a ottobre dello scorso anno”. Oltre alle rivolte arabe, la causa dell’aumento dei flussi migratori verso la Grecia è dovuto alle politiche della vicina Turchia.
Ankara, infatti, ha costruito la propria zona di esenzione dal visto d’ingresso -che assomiglia allo spazio Schengen dell'UE- con Paesi come Iran, Siria, Yemen, Libia, Libano, Marocco e Tunisia. Inoltre, denuncia Fernandez, Ankara promuove voli low cost che operano tra molti paesi del Nord Africa e che atterrano preferibilmente a Istanbul, dove troviamo un aeroporto poco distante dal confine ellenico. Per contrastare il fenomeno Atene sta costruendo un muro alto cinque metri e lungo circa dodici chilometri al confine con la Turchia, nella regione del fiume Evros vicino alla cittadina di Orestiada.
Nel frattempo, Erdogan sfrutterà l’immigrazione clandestina per forzare le scelte di Bruxelles come per anni ha fatto Gheddafi. E perché dovrebbe farlo?
Rispondendo a questa domanda arriviamo anche a scoprire perché la Grecia è ancora indispensabile all’Europa. E al medio oriente. Scoperta di ricchi giacimenti di gas nei fondali dell’Egeo.
Mesi fa sul sito web la pulcedivoltaire Paolo della Sala ha scritto: “Il Bacino del Levante, la porzione di Mediterraneo che va da Cipro verso le coste situate tra Siria Libano Israele e Gaza, trabocca di gas (e petrolio) e ciò disegna un medio oriente completamente nuovo, in cui Israele diventerebbe esportatore di gas e il Libano potrebbe tornare a essere la Svizzera d'Oriente.
Secondo la Noble Energy in tutto il bacino del Levante ci sarebbero almeno 227 Tcf (trillion cubic feet) di gas. Per avere un termine di paragone, le riserve egiziane sono di 77 Tcf, mentre la parte iraniana di South Pars, il più grande bacino al mondo, ha una stima dichiarata di 436 Tcf. L'area compresa tra Cipro e Gaza conterrebbe uno dei primi cinque bacini di gas al mondo”.
Cipro e Israele saranno i futuri trend setter del gas necessario a soddisfare la sete energetica di buona parte del Mediterraneo.
Due impianti ciprioti con una capacità di 7 milioni di tonnellate sono pari a circa il 23 per cento delle esportazioni russe verso l'Europa occidentale. Nicosia e Gerusalemme (con i suoi giacimenti sottomarini di idrocarburi di Tamar e Leviathan a largo di Haifa) stanno infatti collaborando per definire i confini della piattaforma continentale secondo le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare, per cui un Paese è legittimato ad esplorare e sfruttare le risorse naturali ad una distanza di 200 miglia nautiche dalle proprie coste .
La distanza minima tra Israele e Cipro si trova a 140 miglia nautiche e, secondo il diritto internazionale, il confine in questo caso è stabilito a metà tra i due Paesi. Israele punta a liberarsi alla camicia di forza della dipendenza energetica dai vicini arabi. Dagli inizi di febbraio ha visto alzare il prezzo del gas che importa dall’Egitto e per nove volte il gasdotto che dal Sinai rifornisce Gerusalemme è stato sabotato.
L’oro azzurro, dunque, porterà Israele e Cipro (e, per estensione, la Grecia) ad un'alleanza naturale e non è un caso che il viceministro degli esteri israeliano Danny Ayalon sia stato il primo rappresentante di uno Stato straniero a recarsi ufficialmente in Grecia dalla formazione del nuovo governo Papademos, dove, incontrando il suo omologo greco, ha fissato l’agenda per continuare a portare avanti il progetto delle esplorazioni nel mare attorno a Cipro per la ricerca di gas naturale, esplorazioni che Nicosia conduce con la collaborazione di Atene e Gerusalemme e il sostegno tecnico della compagnia americana Noble Energy, Inc.
In questo quadro si inserisce la Turchia che mantiene pessime relazioni con Cipro (Ankara occupa la parte nord dell’Isola dal 1974) con la Grecia (abbiamo appena visto il problema clandestini) e con Israele (dallo scorso settembre ha ridotto al minimo i suoi rapporti con Gerusalemme espellendo l’ambasciatore dello Stato ebraico per i fatti legati alla Mavi Marmara).
Il governo turco, che controlla Cipro Nord con un contingente di circa quarantamila soldati ed è l’unica nazione al mondo a riconoscerne la legittimità, contesta con forza questa attività sostenendo che Nicosia dovrebbe prima trovare una soluzione al conflitto con l’entità turco-cipriota e solo in seguito sfruttare le ricchezze regionali.
Inoltre, Ankara -che non ha mai aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite per il diritto del mare UNCLOS- chiede che i futuri proventi del gasdotto vengano divisi con la Repubblica turca di Cipro del nord, anche se in realtà la zona interessata è adiacente alle coste della più meridionale Repubblica di Cipro, riconosciuto come membro UE e che a giugno prossimo ricoprirà la presidenza di turno dei ventisette Paesi. Erdogan, intanto, ha minacciato l’Europa che se entro giugno 2012 non verrà risolta la “questione cipriota”la vera crisi non interesserà solamente i governi di Nicosia Atene e Gerusalemme ma sarà una questione tra la Turchia e l'Europa. Compresa anche quella del nord.
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Dobbiamo stare attenti all’internazionale dei Fratelli musulmani
di Fiamma Nirenstein - 14 dicembre 2011, 09:00
Tutti i giorni le primavere arabe ci propongono delle sciarade: perché per esempio il più importante comandante islamista delle nuove forze militari libiche invece di lavorare a casa sua è stato mandato in Turchia per aiutare il gruppo armato, ormai un esercito, in lotta contro Assad di Siria? Per quale motivo Abdullah Gül, presidente turco, diserta una conferenza mondiale a Vienna solo perchè il ministro israeliano della difesa Ehud Barak è presente, e dichiara Hamas e il suoi capo Khaled Mashal «sostenitori della democrazia»? Perché il premier Erdogan ha esortato i Paesi occidentali a riconoscere Hamas come «il governo legittimo» dei palestinesi e ha dichiarato Abu Mazen capo di «un governo illegittimo»?
La risposta, come spiega lo storico Barry Rubin, è nella nascita della «Internazionale della Fratellanza Islamica», seconda al traguardo nel 2011 dopo la terza Internazionale Comunista nata nel 1919. Come ai tempi del comunismo, un gruppo ideologico formato da Stati si estende oggi a circa 250 milioni di persone, gli abitanti dell'Egitto, della Striscia di Gaza, del Libano oppresso dagli Hezbollah, della Libia, della Tunisia, probabilmente della Siria, e ormai anche di buona parte della Turchia: questi popoli con estrema probabilità sono o saranno governati da governi che stabiliranno la sharia; che avranno verso le altre religioni un atteggiamento di dominazione (i cristiani e gli ebrei sono per loro, dhimmi, ovvero soggetti a tutela e a leggi speciali che includono il pagamento di decime) o, al peggio, di aggressivo assedio; che avranno come dogma lo stabilimento del califfato mondiale; che terranno verso le donne, gli omosessuali, i dissidenti, un atteggiamento duro e pericoloso.
Fra i Fratelli Musulmani, nati nel 1928 e riemersi adesso dalla clandestinità imposta da dittatori gelosi, vige oggi un atteggiamento di reciproco sostegno economico e morale. Per esempio, Hamas dopo aver visto che Assad uccide e aggredisce i suoi «Fratelli» in Siria (Hamas è parte della Fratellanza che lotta contro il raìs) sta lasciando Damasco e dividerà la sua leadership fra l'Egitto e il Qatar.
In Egitto, l'Internazionale della Fratellanza ha il suo centro, come dire la Mosca dei bei tempi, e gli amici sono lieti di aiutare (ci sarebbero ormai fabbriche d'armi di Hamas nel Sinai, Gaza è molto più aperta a ogni traffico che ai tempi di Mubarak). Il Qatar invece è l'inopinato master delle rivoluzioni, un giocatore d'azzardo dell'estremismo, amico dell'Iran. Ma centrale è nell'Internazionale il rilievo di Istanbul che aiuta l'opposizione siriana, e che si è fatta sponsor di Hamas.
L'Internazionale per ora non ha il suo inno che canta «Futura umanità!», ma non dovremo aspettare molto. Lo si canterà anche in Europa, dove ha centri di diffusione presso alcuni gruppi di immigrati. I gesti a carattere politico-religioso si moltiplicano: ad Amsterdam una folla ha aggredito il dibattito di due musulmani laici, la scrittrice canadese Irshad Manji e il verde olandese-marocchino Tofik Dibi.
Il gruppo in causa si chiama Sharia4Belgium. In Belgio il gruppo ha impedito il dibattito dell'autore Benno Barnard che presentava un suo libro. Ad Anversa il gruppo ha stabilito una corte islamica per creare un sistema legale parallelo. Un buon inizio di califfato, fra tanti altri segnali.
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14-12-2011 13:45 |
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
Un reportage molto accurato quello di Rolla Scolari sul FOGLIO di oggi, 15/12/2011, a pag.3, con il titolo "Tra le soldatesse d'Israele che spiano il nemico sul fronte Sinai", nel quale analizza la situazione al confine con il Sinai.
Ecco l'articolo:
Eilat. I ristoranti servono il pranzo all’aperto, a pochi passi dalla spiaggia di Eilat. I turisti russi in costume da bagno prendono il sole stesi sulle sdraio, mentre un gruppo di immigrati sudanesi in giacca a vento siede su un molo, lo sguardo perso sulla baia di Aqaba, verso la costa giordana, dove sventola un’enorme bandiera del regno hashemita.
E’ un giorno come tanti altri e nulla sembra indicare che a pochi chilometri dal mare, lungo il confine che separa Israele dall’Egitto, l’allerta è così alta da far decidere al ministero dell’Istruzione di sospendere alcune gite scolastiche programmate nel sud del paese. Qualche giorno fa, l’aviazione israeliana ha colpito una cellula palestinese delle Brigate dei martiri di al Aqsa – braccio armato di Fatah – nella Striscia di Gaza, uccidendo due persone. Un portavoce dell’esercito israeliano ha spiegato che, secondo fonti di intelligence, il gruppo stava preparando un attacco terroristico in territorio israeliano seguendo la rotta Gaza, Sinai egiziano, Israele attraverso il confine meridionale.
L’attacco ha innescato la risposta dei militanti palestinesi, che hanno lanciato razzi sul sud di Israele. In risposta, l’aviazione israeliana ha colpito un campo di addestramento di Hamas. Le nuove violenze a Gaza sono legate alla situazione lungo la frontiera egiziana. Ed è proprio il confine meridionale a essere diventato in questi mesi di rivolte arabe una delle maggiori preoccupazioni per Israele. Nel 2009, il governo di Benjamin Netanyahu aveva dato il suo assenso alla costruzione di una barriera in metallo, altamente tecnologizzata, per blindare i 240 chilometri di confine da Eilat, nel sud, al valico di Rafah a nord. Allora, l’enorme progetto in metallo era stato pensato per bloccare il contrabbando di droga, armi, prostitute, l’immigrazione africana. Sono tremila gli africani che hanno sconfinato soltanto nel mese di novembre, 13.500 gli immigrati che hanno attraversato questo confine nel 2010.
Ma con gli sconvolgimenti che hanno toccato l’Egitto in questi mesi e soprattutto dopo il multiplo attacco di agosto, 30 chilometri a nord di Eilat, quando terroristi infiltrati dal Sinai hanno ucciso otto persone, la barriera ha assunto tutto un altro significato. Mentre ci trovavamo lì, la costruzione della barriera è stata fermata in tre punti diversi, ha rivelato alla stampa israeliana il brigadiere generale Yoav Mordechai. La ragione: un concreto allarme terroristico. In questo momento “dire che i residenti di Eilat possono riposare tranquillamente sarebbe irresponsabile”, ha aggiunto. Per Mordechai, “il Sinai è diventato terra di nessuno: gruppi palestinesi e terrorismo globale trovano lì un’area conveniente per creare infrastrutture del terrore”. “Non possiamo fidarci del Cairo” Secondo fonti militari consultate dal Foglio, la costruzione della barriera dopo l’attacco di agosto e in seguito agli eventi del Cairo ha subito un’accelerazione e l’esercito ha anche aumentato la sua presenza in termini numerici lungo il confine.
La fortificazione della frontiera è il segnale più concreto dell’aumentata preoccupazione israeliana nei confronti della nuova realtà regionale, e soprattutto della situazione politica del vicino e solitario alleato egiziano. Un altro segnale dello stesso tipo è l’arrivo sul confine di una unità speciale, l’unità Rimon (in ebraico melograno, ma anche granata), creata circa un anno e mezzo fa, quando Hosni Mubarak era ancora al potere. Nei decenni della sua storia, l’esercito israeliano – ha scritto il corrispondente militare di Haaretz, Anshel Pfeffer – ha risposto alle diverse sfide della sicurezza creando nuove unità speciali: a metà degli anni Ottanta formò Duvdevan, per missioni segrete in Cisgiordania; negli anni Novanta ricreò Egoz, unità addestrata all’antiguerriglia, con il compito di affrontare il problema posto dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah al nord. Il dispiegamento al sud dell’unità Rimon marca l’avvento di una nuova minaccia strategica per Israele, in arrivo dal Sinai. Quello con l’Egitto “è sempre stato un confine con problemi di contrabbando di africani, prostitute, sigarette, droga, non soltanto armi – spiega al Foglio Anshel Pfeffer – In seguito all’attacco di Eilat il progetto della barriera si è risvegliato. Non è più soltanto una questione di soldi, ma di sicurezza.
Dopo il 1979, il punto di gravità si è spostato al nord, con il Libano, e in Cisgiordania, dove sono andate anche le risorse militari, e attorno a Gaza. Ma nulla è stato fatto su questo confine, che ora diventa importante. L’esercito non può più affidarsi all’Egitto per fermare il contrabbando di armi che arrivano oggi anche dalla Libia, e per arginare la presenza di al Qaida”. I ripetuti attacchi dei mesi passati ai gasdotti nel Sinai – dove la popolazione beduina per decenni trascurata dall’ex regime egiziano è tesa e insofferente – raccontano una situazione sempre più caotica nell’area, tanto che Israele ha permesso all’esercito egiziano di dispiegare un maggior numero di soldati in una zona che secondo il trattato del 1979 è parzialmente demilitarizzata. Ad agosto, il consiglio superiore delle Forze armate che governa l’Egitto ha deciso di mandare nella zona della cittadina costiera di al Arish, a ridosso della Striscia di Gaza, mille soldati, dopo che una stazione di polizia era stata presa d’assalto da uomini armati, che hanno ingaggiato una battaglia di nove ore con gli agenti, usando lanciarazzi e granate.
In un recente incontro del comitato degli Affari esteri del Parlamento israeliano, il capo di stato maggiore Benny Gantz ha detto che l’Egitto è diventato una fonte di attacchi terroristici per Israele. Gli eventi sul confine hanno avuto effetto sull’instabilità del Cairo e hanno quasi portato a una crisi diplomatica tra i due paesi. In seguito all’attentato di agosto a Eilat, l’esercito israeliano ha colpito e ucciso inavvertitamente cinque ufficiali egiziani dall’altra parte della frontiera. Tre settimane dopo, l’ambasciata israeliana al Cairo è stata presa d’assalto. Alcuni funzionari israeliani sono stati salvati da un’irruzione all’ultimo minuto delle forze speciali egiziane. L’ambasciatore e la squadra diplomatica sono tornati soltanto da poco in Egitto. “Missioni più frequenti e più lunghe” Da febbraio, dalla caduta dell’ex rais egiziano Mubarak “il Sinai è più caotico”, ammette Dana Ben Ezra, comandante di un’unità speciale da combattimento formata da sole donne che dal 2006 fa la guardia al confine. Il nome dell’unità – Nakhshol – in ebraico significa grande onda, onda da marea. Le ragazze che ne fanno parte sono giovanissime, hanno tutte più o meno 20 anni.
Il loro compito è quello di raccogliere intelligence lungo il confine, mimetizzandosi nel deserto, dove passano interi giorni e intere notti a controllare ogni movimento. “Dall’attacco di Eilat – spiega il comandante Ben Ezra, 27 anni, un fascio di muscoli – la mia squadra è più attiva, le missioni sono più frequenti e lunghe”. Le ragazze, che si definiscono “gli occhi del confine”, raccontano una nuova realtà: “Il nostro obiettivo principale è la difesa di Eilat e dei suoi residenti”, dice il sergente Ron Melzer. Con la caduta di Mubarak, dopo l’attacco di Eilat e anche con i risultati delle elezioni al Cairo e la vittoria di Fratelli musulmani e salafiti (un successo che fa temere per la salute del trattato di Pace del 1979) “c’è stato un cambiamento – dice il soldato semplice Hanna Larson, 20 anni, grandi occhi blu – prima di tutto usciamo per prevenire attacchi terroristici, poi per fermare contrabbandieri e immigrati”. Da agosto, la strada statale numero 12, che costeggia il confine e lungo la quale è avvenuto l’attacco, è chiusa al pubblico.
E gli operai impegnati nella costruzione della barriera possono lavorare soltanto in presenza dell’esercito. Il timore del governo israeliano e delle forze di sicurezza è che l’instabilità in Egitto possa portare all’anarchia nel Sinai e che gruppi armati palestinesi a Gaza possano sconfinare in territorio egiziano per rientrare in Israele dal sud. Per i movimenti palestinesi la frontiera tra Israele e Gaza è una via impraticabile, perché il perimetro della Striscia è bloccato da un’altra barriera super tecnologica e sensibile al tatto. “C’è una connessione molto chiara tra Gaza e questo confine – dice il comandante Ben Ezra puntando lo sguardo verso le montagne desertiche di Eilat e la frontiera – Sono Gaza e i suoi terroristi che controllano il Sinai”. La costruzione della barriera avanza veloce. Su 240 chilometri di confine ne sono stati chiusi finora 70, spiegano funzionari del ministero della Difesa israeliano, che rivelano anche il costo del progetto: 1,35 miliardi di sheqel (290 milioni di dollari). Al termine del 2012, la barriera sarà lunga 220 chilometri: al sud, l’area attorno a Eilat, più montagnosa, sarà lasciata aperta, controllata attraverso telecamere e altre tecnologie.
A quel punto, la frontiera con la Giordania rimarrà il solo fianco scoperto di Israele. La barriera è alta circa cinque metri, con un angolo in alto piegato verso il territorio egiziano per scoraggiare tentativi di scalata. Lungo il suo percorso ci sono telecamere e posti di guardia con torrette di 30 metri. Ma a differenza del confine settentrionale con il Libano, della frontiera con la Striscia di Gaza e del controverso muro della Cisgiordania, la barriera di metallo difende una linea di confine molto più lunga: 240 chilometri che, nonostante la nuova costruzione, non possono essere monitorati e pattugliati costantemente.
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
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Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Perché loro no? E' il loro compleanno
Cari amici,
fra un po' è Natale, bisogna essere buoni, anche perché quel che si celebra è il compleanno del più celebre figlio del popolo palestinese, il signor Aisa, scritto ain, ya, sin, alif maqsura. Non lo conoscete? Male, dovete rimediare; sappiate che in Italia si chiama Gesù, che naturalmente è sbagliato: era certamente palestinese e dovete chiamarlo Aisa: il bambin Aisà, o Aisaà mammasantissima ecc.. Non ci credete? Dite che Gesù era discendente dal Re Davide, e prima di lui da Jehudà, figlio di Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo, quindi ebreo ebreissimo? Dite che lo dicono proprio i Vangeli e non ci si può sbagliare? Ma che importa, era palestinese lo stesso! Veniva dalla Palestina, no? Ma ai suopi tempi non si chiamava Palestina, dite voi, bensì Terra di Israele o al massimo Giudea... Non formalizzatevi sui nomi, per favore, sono cavilli tipicamente sionisti: insomma, non crederete mica alle menzogne delle scritture ebraiche, sono state corrotte da quegli infedeli, le ha corrette il Santo Corano, che ha chiarito che anche Abramo e Mosè erano buoni musulmani, il sacrificio l'ha subito Ismaele e non Isacco – cose così. Ma allora non c'erano i palestinesi allora, insistete voi...
Ma certo che c'erano, anche prima, da sempre, solo che erano una tribù cananea, si chiamavano Gebusei. Ma, continuate voi, testardi, a parte che non ci sono assolutamente prove di questa pretesa filiazione, cioè è una pura trovata propagandistica (http://en.wikipedia.org/wiki/Jebusite), ci sono due piccoli problemi: il primo è che l'unica testimonianza che abbiamo dei Gebusei viene dalla Bibbia ebraica (il Corano non ne parla, disgraziatamente e non ci sono altre fonti letterarie o archeologiche specifiche) e quindi per credere all'esistenza dei Gebusei dobbiamo fidarci di quel testo sacro dell'ebraismo che attesta il carattere ebraico della "Palestina", e che quindi i palestinesi negano. Insomma, o è vera la Bibbia e c'è stato il regno di Israele, o non è vera e allora non ci sono stati neanche i Gebusei. Il secondo è che i Gebusei non erano affatto arabi, ma appartenevano alle tribù indoeuropee immigrate in medio oriente dal mare (http://elderofziyon.blogspot.com/2011/12...-rofl.html) . Vabbè, mi assegno l'ultima parola, sono io che scrivo e non vi faccio più parlare: basta storie, che Gesù fosse palestinese lo dice il primo ministro palestinese, quello colto, educato in America, Salam Fayyad (http://www.cbsnews.com/8301-501713_162-5...bethlehem/); L'aveva detto anche prima santo Arafat martire e tanto vi deve bastare. E se qualcuno critica quest'idea, come un articolo di Informazione Corretta di ieri (http://www.informazionecorretta.com/main...p;id=42667), be', a me non importa niente. So ben io a chi devo credere.
Comunque tutta questa era una divagazione. Riprendiamo. Dato che è Natale e siamo tutti buoni, dobbiamo fare festa per i compleanni, che in fondo sono natali anche loro. Anzi, per dire la verità, è Natale che è un compleanno. Facciamo festa oggi in particolare per il compleanno di Hamas, che in verità è passato da qualche giorno, il 13 dicembre; ma meglio tardi che mai: il baldo movimento islamico ha compiuto 24 anni, a quell'età si è giovani ma già adulti, fa un sacco di danni così, figuratevi se fosse affetto da demenza senile o incontinenza adolescenziale. Hamas ha celebrato il suo compeanni/natale con un raduno di massa a Gaza e per l'occasione ha fatto un piccolo bilancio della sua esistenza operosa, apprezzabilmente sintetizzato in numeri, come si conviene alle persone pragmatiche e "moderate" (http://elderofziyon.blogspot.com/2011/12...brags.html). Ecco le cifre:
1848 "martiri"
1365 israeliani uccisi
6411 israeliani feriti
1117 attacchi terroristici
87 missioni suicide
11.093 razzi e colpi di mortaio sparati su Israele
Un bel record, cosa dite? Fanno bene a diffondere loro stessi questi dati e a vantarsene. Proprio quel che ci vuole perché un'organizzazione sia un buon partner per la pace. Basta quel po' di ottimismo e soprattutto la straordinaria onestà intellettuale di Muhammad Abbas, il presidente dell'autorità palestinese, per garantire che un gruppo con questi precedenti, vantati fino all'altro giorno, possa volgersi da domani alla "resistenza pacifica" (http://elderofziyon.blogspot.com/2011/12...lence.html) e dunque entrare in un governo accettabile alla comunità internazionale. Del resto, se quelli del suo gruppo, Al Fatah, impegnati in un percorso di pace da una ventina d'anni, continuano a fare attentati da allora, perché Hamas non potrebbe diventare anch'essa pacifica e continuare a sparare razzi e a rapire soldati? L'ha detto anche Abbas che il rapimento di Shalit è stata "una cosa buona" (http://www.memritv.org/clip/en/0/0/0/0/0/0/3163.htm)... l'hanno fatto loro. E non sono quelli di Fatah in questo momento a "dichiarar guerra" alla "normalizzazione" con Israele (http://www.jpost.com/DiplomacyAndPolitic...?id=249842) ?
Perché Hamas no, dunque? Buon Natale, dunque, "pacifica" Hamas, anche da buoni è facile profetizzare che fino a quando qualcuno non riuscirà a fermarti con le cattive maniere (io che sono cattivo me lo auguro ogni giorno), continuerai a combinare danni come prima, pace o non pace, governo o non governo. Ma ascolta me, verrà anche il tuo giorno di pagare i conti.
Ugo Volli
Post scriptum: Ho appena ricevuto da un'amica in Israele il testo del discorso del parroco di Ramallah (il cappellano di Al Fatah?) per Natale (http://www.al-ayyam.com/article.aspx?did...5&date). Ve lo giro, perché come dicono i ragazzi, è troppo divertente:
"In questi giorni il mondo intero si prepara a celebrare la Natività di Cristo che deve essere un messaggio al mondo intero della necessità di applicare i principi e gli insegnamenti spirituali di giustizia, di pace, di libertà e di dignità umana".
"In questa terra, terra araba dove Gesù è nato palestinese e ha vissuto migliaia di anni prima dell'avvento della occupazione israeliana ... non avrà pace senza tornare ai suoi proprietari; e il muro e l'assedio e l'isolamento non potranno cambiare la sua storia e la sua santità."
Troppo bello, no comment.
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
Ora che il Verdame&C hanno ridotto alla fame un continente, L'Europa, con l'idiozia contro il nucleare, RAI3 stà spianando la strada all'integralismo islamico, attacando con la loro unica capacità comunicativa.
Il successo di aver demonizzato il nucleare li rende forti e non gli fà cambiare metodo, attaccano l'ultimo baluardo della civiltà.
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24.12.2011
Rai 3 diffama l'esercito di difesa di Israele
sommergiamola con e-mail di protesta,
RAI 3 ha mandato in onda il 21/12/2011 - programma DOC3-, in orario notturno - un lungo documentario trasmesso in origine dalla TV spagnola sui militari israeliani, in modo particolare sul servizio di leva, che in Israele dura tre anni. Definirlo diffamatorio è fargli un complimento, essendo tutta la sua impostazione tesa a dimostrare - attraverso continue interviste - come Tzahal opprima, umili i palestinesi.
Un video di pura propaganda - non stupisce che sia stata la TV spagnola a produrlo, nè che sia stata RAI 3 a diffonderlo.
Conforta l'ora scelta per trasmetterlo, verso l' 1 di notte e che il sito internet di Rai 3 che lo ospita
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/med...8.html#p=0
abbia avuto alle ore 8 della mattina del 24/12 circa 4000 visitatori. Accanto al video viene anche segnalato che il documentario è andato in onda il 14/07, quindi si è trattato di una ripresa della prima presentazione andata in onda il 14/07/2011
Aggiungiamo che la presentazione del giornalista italiano Alessandro Robecchi, e quanto c'è scritto nella pagina web che lo presenta, sono senza contestualizzazione storica.
I soldati di Israele sono mostrati come un branco di deficienti, semi ubriachi, ignoranti, che non aspettano altro che di disertare.
Invitiamo i nostri lettori a scrivere a RAI3 per protestare, li invitamo altresì a non pagare il canone di abbonamento RAI, è immorale finanziare con il nostro denaro la propaganda contro Israele.
Per scrivere a Rai3, usare il link sottostante:
http://www.rai3.rai.it/dl/RaiTre/contatti.html
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
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Paradosso persiano/ 1
La rivoluzione khomeinista ha avuto un solo effetto: isolare l'Iran
di Andrea Milluzzi e Linda Dorigo 3 Gennaio 2012
Teheran - Come il 1979? L'assalto degli "studenti" iraniani all'ambasciata inglese di Teheran del 29 novembre scorso ha riportato subito alla mente quanto successo all'indomani della rivoluzione khomeinista, quando centinaia di giovani rivoluzionari fecero irruzione nell'ambasciata americana e tennero 63 persone in ostaggio per 444 giorni.
E' facile azzardare un paragone fra oggi e allora, ma le immagini dalla capitale iraniana con decine di uomini intenti a bruciare l'Union Jack sopra il cancello della sede diplomatica britannica non bastano a giustificarlo.
L'Iran prima della rivoluzione islamista era un Paese centrale nello scacchiere geopolitico mondiale, lo Shah Reza Pahlavi vantava rapporti economici e personali con le maggiori potenze occidentali e la società iraniana era aperta all'esterno, grazie al turismo, ai mezzi di comunicazione e ad un passaporto che quasi ovunque non subiva restrizioni.
Adesso la Repubblica Islamica è alle prese con un isolamento internazionale senza precedenti: inserita dal 2008 nella lista degli “Stati canaglia” stilata dall'amministrazione Usa di George W. Bush, sottoposta ad un embargo internazionale per il suo programma di sviluppo nucleare che rende difficilissimo il commercio e le transazioni bancarie e finanziarie, condannata da ogni dove per le posizioni antisemite e negazioniste nei confronti di Israele.
Oggi come allora a pagare il prezzo più alto per la politica del suo Governo e le decisioni internazionali è sempre la popolazione iraniana. Il benessere e lo sviluppo propiziati dallo Shah erano privilegi per una minoranza degli iraniani, soprattutto per la classe medio-alta delle città, mentre nelle campagne permaneva l'analfabetismo e la mancanza di infrastrutture. Il laicismo imposto dalla dinastia Pahlavi, oltre alla corruzione e agli sfarzi di corte, continuamente ostentati in pubblico per accrescere il lustro della "grande Persia", non faceva altro che alimentare l'astio di una società gelosa delle sue radici e distante da un modello di vita troppo occidentale. Indossare il hijab era proibito, ma per molte donne avere la testa coperta da un velo era un segno di appartenenza e di rispetto di antiche tradizioni.
Specialmente negli ultimi anni del suo regno Reza Pahlavi si lanciò in spese folli e populiste (beni di consumo, armamenti militari) che stridevano clamorosamente con una rete di servizi e di infrastrutture assai carente e con una disoccupazione e un'inflazione giunte a livelli non più controllabili.
La paura di perdere il potere aveva indotto lo Shah a rafforzare la polizia segreta, la Savak, che pattugliava giorno e notte le vie delle città con orecchie tese ad ascoltare qualsiasi critica, diretta o meno, al sovrano e ai suoi fedeli. Sempre attraverso la Savak e l'esercito, il regime si premurava di sedare qualsiasi tentativo di ribellione e di perseguitare ed arrestare gli avversari politici, dai sindacati agli intellettuali, dal partito comunista Tudeh agli ulema seguaci dell'ayatollah Khomeini, già costretto in esilio a Najaf, in Iraq prima e a Parigi poi.
La rivoluzione che ne seguì aveva quindi un terreno fertile per coinvolgere attori diversi fra loro, tanto che molti degli osservatori internazionali che avevano salutato con entusiasmo il cambiamento iraniano, all'insegna di una maggiore libertà, non furono capaci di prevedere quello che sarebbe successo subito dopo.
La debolezza e le divisioni di molte componenti della rivoluzione, dai comunisti ai sindacati passando per gli intellettuali e l'esercito, favorirono la presa egemone del potere da parte del clero religioso che in breve tempo riuscì ad organizzare un referendum per il passaggio dalla monarchia alla repubblica islamica, che venne stravinto con il 98% dei voti. Alla trasformazione dell'Iran in un Paese guidato dai dettami dell'Islam si accompagnò l'epurazione dei nemici interni, marchiando con l'epiteto di "infedele" chiunque si opponesse al regime o tradisse, seconda la visione dei mullah e ulema, gli ideali della rivoluzione.
Cancellati i sindacati, i comunisti e buona parte dell'esercito e ridotto al silenzio il mondo intellettuale, il consiglio supremo della rivoluzione, maggior organo costituzionale guidato da Khomeini fino alla sua morte, rimase il padre-padrone dell'Iran.
Credendo che le divisioni interne avessero indebolito l'esercito e il dinamismo politico dell'antico nemico confinate, il raìs iracheno Saddam Hussein attaccò l'Iran il 22 settembre 1980, con la benedizione dell'amministrazione statunitense di Ronald Reagan.
I successivi otto anni di guerra fra i due confinanti non produssero un chiaro vincitore, ma ebbero come sole conseguenze un milione di iraniani morti e circa 700 miliardi di dollari di costi. Sul piano politico il patriottismo diffuso a profusione dal regime consolidò la rivoluzione khomeinista e mise a tacere ogni speranza di cambiamento, gettando gli iraniani da un regime all'altro.
Durante i trenta e più anni che sono intercorsi dalla cacciata dello Shah ad oggi, il regime iraniano ha prima cercato di esportare la rivoluzione sciita nei Paesi confinanti, poi si è ritrovato chiuso nei confini territoriali, osteggiato sia dai potenti vicini dell'Arabia Saudita sia da potenze occidentali quali Usa, Inghilterra e da Israele. Un isolamento accentuato dall'ascesa al Governo dell'attuale presidente Mahmud Ahmadinejad che, con le provocazioni contro Israele e l’ambiguità sulla corsa al nucleare, ha provocato le reazioni dell'Occidente, sempre sfociate in sanzioni economiche e finanziarie.
In realtà il progetto nucleare è una costante della storia dell'Iran, da sempre alla ricerca di un approvvigionamento energetico diverso da petrolio e gas, di cui è rispettivamente terzo e secondo produttore al mondo e la cui esportazione è la principale, se non unica, fonte di ricchezza nazionale. Ma l'Iran è un Paese di 70 milioni di abitanti che quotidianamente fanno uso di vecchie auto e camion che hanno bisogno di benzina. Così, dei 4.031 milioni di barili di petrolio estratti ogni giorno, solo 2.476 finiscono sul mercato, mentre gli altri sono destinati al consumo interno. Togliere questa merce dalle forniture all'estero significa però guadagnare meno, senza considerare che la fornitura di benzina in Iran è razionata.
I governi iraniani che si sono succeduti hanno quindi cercato da sempre una via alternativa per l'approvvigionamento energetico, puntando sul nucleare. Lo Shah firmò con Washington un trattato di cooperazione nucleare al servizio della pace nel 1957 e nel 1970 l'Iran fu tra i firmatari del trattato di non proliferazione nucleare. Lo stesso Shah si rese conto in seguito della necessità di diversificare e arricchire le fonti di approvvigionamento energetico e dal 1974 al 1978 spese 8 miliardi di dollari per la progettazione di una ventina di centrali nucleari che avrebbero dovuto fornire all'Iran un quarto dell'elettricità necessaria nell'arco di 20 anni. Subito dopo la rivoluzione del 1979 il progetto nucleare venne sospeso, ma la sete di energia riprese ben presto.
Gli Ayatollah cercarono partner stranieri per la costruzione delle centrali e consulenze sul caso ma nessuno, tranne Mosca, accolse la richiesta iraniana. La tecnologia russa era però diversa da quelle tedesche e francesi con cui lo Shah aveva iniziato a lavorare. Fu così necessario convertire l'impianto di Busher, la prima delle centrali nucleari costruite sul territorio, tanto che il progetto nucleare si arenò per qualche anno. Fu con la presidenza Khatami prima e, soprattutto con il Governo Ahmadinejad poi, che il nucleare iraniano tornò prepotentemente alla ribalta della cronaca.
Oltre al mero calcolo energetico, l'Iran è interessato a diventare una potenza nucleare anche per ragioni di principio: due ex colonie dell'area, Pakistan ed India, hanno la bomba atomica, così come ce l'ha Israele, nemico giurato.
Per scoraggiare qualsiasi intenzione bellica dei confinanti, o viceversa per incutere loro timore, l'arricchimento del nucleare è un'arma preziosa. Infine gli Ayatollah, come i due Shah prima di loro, non hanno mai abbandonato il sogno di fare dell'odierno Iran un impero regionale che possa ricalcare i fasti dell'antica Persia e spaventare il mondo con la minaccia nucleare fa parte di questo progetto.La condanna della comunità internazionale sul nucleare iraniano riguarda l'atteggiamento circospetto che i governi hanno tenuto sulla vicenda.
Alle richieste di aprire le porte delle centrali e di inviare documentazione all'Aiea (Agenzia internazionale per l'energia atomica) sono giunte da Tehran risposte contraddittorie e a volte addirittura dinieghi. La costruzione di Busher fu tenuta nascosta all'Aiea che, nel 2005, riscontrò violazioni al protocollo internazionale nella centrale di Isfhan e mise i sigilli al sito di Natanz (sigilli poi tolti dai funzionari iraniani, mossa che acuì la paura dell'Occidente).
Nel 2007 Ahmadinejad annunciò che l'Iran sarebbe stato in grado di produrre 1300 centrifughe e l'anno successivo l'esercito iraniano testò un missile a media gittata in grado di raggiungere anche Israele. L'ultimo allarme Aiea viene lanciato l'8 novembre scorso con un rapporto basato su informazioni avute da personaggi chiave del programma nucleare iraniano (probabilmente un tecnico russo incaricato del programma stesso):
"L’Iran si trova in uno stadio avanzato nella costruzione della bomba atomica, smentendo gli scopi esclusivamente civili dell’arricchimento di uranio sostenuti dal regime di Teheran, ed è già in possesso di missili come gli Shahab-3, sui quali può essere montata una testata nucleare, che, con una gittata di 2.000 chilometri, è in grado di colpire Israele.
Il Paese sta inoltre lavorando allo sviluppo delle versioni successive (Shahab 4 e 5), che sarebbero in grado di raggiungere l’Europa”.
In seguito a questo rapporto, Israele ha minacciato di attaccare l'Iran prima che sia troppo tardi, mentre la comunità internazionale ha varato nuove pesanti sanzioni contro esponenti del regime e l'economa iraniana, banche in primis.
Da oltre 30 anni l'Iran è sottoposto a sanzioni e restrizioni da parte della comunità internazionale (quasi sempre approvate con la contrarietà di Russia e Cina, importanti partner commerciali della Repubblica islamica). Però queste limitazioni all'economia e al commercio, unite alla dilagante corruzione del Governo e ad un meccanismo produttivo autoreferenziale, visto che lo Stato deve essere presente almeno al 60% in ogni attività industriale intrapresa, hanno avuto come risultato più immediato di peggiorare nettamente il tenore di vita della popolazione iraniana.
Prima dell'ultima tornata di sanzioni la situazione delle famiglie iraniane era già al limite: nell'estate 2011 il Governo di Ahmadinejad ha portato a 400.000 ryal (poco più di 27 euro) il sussidio statale mensile alle famiglie. Parallelamente però l'inflazione è schizzata a volte del 700%: un chilo di pane, che costava 5000 Ryal, ad agosto era salito a 2.300 (poco più di un euro e mezzo), un litro di latte da 1.000 ryal a 7.000, il biglietto del bus da 100 a 300, per un litro di benzina si spendevano 4.000 ryal.
Anche gli affitti di case e appartamenti sono paragonabili ad una media capitale europea e la sanità è un lusso che si può permettere solo chi ha i soldi necessari a pagarsi un'assicurazione privata. ( continua)
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
Rai3 è spudoratamente un mezzo di propaganda della sua quota di lottizzazione politica della rai.
Io la salto a piedi pari. Tanto trasmette solo disinformazione.
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09-01-2012 19:22 |
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
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La STAMPA - Maurizio Molinari : " Accordo tra intelligence per la guerra
segreta "
La guerra contro il programma nucleare iraniano è in pieno svolgimento e bersaglia computer, impianti e scienziati con un metodo che lascia intendere una possibile cooperazione senza precedenti fra i servizi di intelligence di più nazioni.
Nel giugno 2010 il virus «Stuxnet» infiltra i controlli Siemens delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio di Natanz, a inizio dicembre una potente esplosione investe una base missilistica delle Guardie della Rivoluzione uccidendo oltre quaranta persone, incluso il capo del progetto di sviluppo balistico generale Hassan Tehrani Moqaddam. Due settimane dopo un’altra esplosione a Isfahan danneggia l’impianto di conversione dell’uranio: si tratta di attacchi che colpiscono i tre elementi-chiave del programma nucleare iraniano, ovvero l’arricchimento dell’uranio, la conversione dell’uranio e la realizzazione di missili in grado di trasportare future armi atomiche.
Da qui lo scenario di un piano di sabotaggio ben coordinato, che richiede disponibilità di ingenti risorse finanziarie e tecnologiche, informazioni precise di intelligence, agenti operativi sul territorio e una gestione altamente sofisticata di tali tasselli. Ad esempio, per eliminare il generale Moqaddam bisognava conoscerne gli spostamenti dentro la base militare così come, per infettare i computer con Stuxnet, una persona si è dovuta avvicinare fisicamente e inserire la chiavetta con il virus, visto che gli impianti di Natanz sono privi di collegamenti al web. Complementare ai sabotaggi contro gli impianti è l’eliminazione degli scienziati impegnati nel programma, perché sono loro che possiedono il «know-how»: ne sono già stati uccisi almeno quattro, da Massoud Ali Mohammadi, assassinato il 12 gennaio 2010, a Mostafa Ahmadi Roshan eliminato ieri con una microbomba attaccata con una calamita alla portiera della sua auto da un motociclista in una molto trafficata vi—a di Teheran.
Le autorità iraniane imputano da tempo tali attacchi ai servizi segreti di Israele, Stati Uniti e Gran Bretagna e l’ipotesi di una inedita forma di coordinamento fra 007 di più nazioni è stata avvalorata anche dall’inchiesta svolta dal «New York Times» su Stuxnet, sulle base del fatto che un virus di tale sofisticazione e potenza richiede alle spalle capacità scientifiche che riconducono a Stati Uniti e Israele. D’altra parte pochi giorni fa Meir Dagan, ex capo del Mossad nonché tenace sostenitore delle operazioni segrete, ha risposto con un sorriso di assenso quando gli è stato chiesto se era stato «Dio» a mettere a segno i sabotaggi contro il programma iraniano. E Gary Samore, assistente del presidente Obama contro lo sviluppo delle armi di distruzione di massa, nel maggio scorso si è detto «lieto di sapere che gli iraniani hanno problemi con le centrifughe» a causa di Stuxnet, spingendosi fino ad affermare che «con gli alleati stiamo facendo di tutto per rendergli il lavoro ancor più complicato».
Samore era a fianco di Obama al G20 di Pittsburgh nel settembre 2009 quando, assieme a Gordon Brown e Nicolas Sarkozy, annunciò la scoperta dell’impianto segreto di Fordow, nei pressi di Qom, lasciando chiaramente intendere che gli 007 dei tre alleati erano stati coinvolti nell’operazione.
Fonti diplomatiche del Golfo assicurano che il recente assalto all’ambasciata britannica è nato dalla volontà dei Guardiani della Rivoluzione - che proteggono il programma nucleare - di vendicarsi contro uno dei Paesi presunti mandanti dei sabotaggi. Trattandosi di una guerra segreta, descriverne le caratteristiche è proibitivo ma l’impressione è di trovarsi di fronte a una joint venture fra alta tecnologia e 007 vecchia maniera. È infatti noto che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia dispongono assieme della più sofisticata rete di sorveglianza satellitare ed elettronica del Pianeta mentre la caccia agli scienziati iraniani ricorda da vicino l’operazione «Rabbia di Dio», lanciata dallo Stato ebraico dopo la strage degli atleti israeliani alle Olimpiadidi Monaco del 1972 per eliminare tutti i componenti del commando terroristico palestinese che ne erano stati responsabili. L’uso delle moto per dileguarsi nel traffico e di piccoli esplosivi - sotto il letto di una camera d’hotel o un’auto - per limitare al massimo i danni collaterali sin da allora diventò una firma del Mossad, che ora sembra ricomparire a Teheran.
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " The day after "
Giulio Meotti
Roma. L’esercito israeliano si prepara al confronto militare con il regime iraniano. Gerusalemme ha creato un “Comando per le operazioni speciali di profondità” che deve agire nel “terzo cerchio”, espressione che si riferisce al Golfo e al Corno d’Africa. Secondo i media israeliani, sono le teste di cuoio speciali che devono entrare in azione all’interno dell’Iran. Sono un centinaio di militari scelti e guidati dal generale Shai Avital, che ha già servito nell’unità speciale Sayeret in cui a Entebbe ha perso la vita il fratello dell’attuale premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Intanto la leadership di Gerusalemme si prepara al “day after”, cioè al momento in cui la Repubblica islamica dell’Iran avrà testato la bomba atomica. L’Institute for national security studies, il più autorevole centro studi di intelligence nello stato ebraico, ha reso noti i possibili scenari che potrebbero realizzarsi qualora Teheran conducesse un test nucleare. La data fissata per il punto di non ritorno è “gennaio 2013”. Ron Ben-Yishai, il maggiore commentarore militare israeliano, su Yedioth Ahronoth ha scritto: “Nonostante i progressi scientifici, l’Iran non ha ancora deciso di sviluppare armi atomiche. La ragione è la sua sopravvivenza politica sotto le sanzioni e la paura di un attacco militare. L’occidente ha un anno circa per adottare misure dure, compreso lo strike. La decisione verrà presa nel marzo 2012”. Il rapporto israeliano dell’Institute for national security studies parla di un “cambio di potere in medio oriente”. Gli Stati Uniti, recita il testo, cercheranno di dissuadere lo stato ebraico da una risposta militare dopo il test iraniano. La Russia potrebbe cercare di stabilire un patto con gli Stati Uniti per evitare la proliferazione nucleare nella regione. E’ data per certa la corsa dell’Arabia Saudita, arcinemica degli iraniani, alla produzione di tecnologia atomica a fini militari. Secondo il rapporto dell’Institute for national security studies, Teheran, forte dell’atomica, vorrà ridisegnare i propri confini con l’Iraq e adotterà provvedimenti per indebolire la deterrenza militare americana nel Golfo persico. “La simulazione dimostra che l’Iran non cercherà di usare le bombe nucleari, ma di sfruttarle per raggiungere un accordo con le potenze regionali e migliorare la propria posizione”, recita il rapporto spedito dagli strateghi israeliani all’ufficio del primo ministro, Benjamin Netanyahu. “La simulazione mostra che l’opzione militare israeliana, o la minaccia di usarla, è anch’essa rilevante dopo un test atomico iraniano”. Secondo il rapporto, “l’Iran pensa che le sanzioni si rafforzeranno, ma che sarà comunque in grado di sopravvivere”. Washington potrebbe chiedere a Israele di “entrare nella Nato”, l’Alleanza atlantica, in modo da garantire allo stato ebraico un ombrello di difesa in caso di conflitto regionale. Un mese fa era uscito un rapporto molto simile sull’Iran firmato American Enterprise Institute. Un super dossier a cui gli strateghi, i deputati al Congresso e i militari di orientamento repubblicano hanno lavorato per sei mesi per conto del principale pensatoio conservatore diWashington. Anche questo report aveva spiegato che “il prossimo presidente americano nel gennaio 2013 avrà di fronte un Iran nuclearizzato” e che si deve riconoscere la possibilità di un insuccesso “nell’eliminazione del programma nucleare iraniano con una campagna rapida di strike”. Attualmente, spiegano sette analisti su Foreign Affairs, ci sono “tre scuole di pensiero nell’establishment militare israeliano su cosa accadrà il giorno dopo in cui l’Iran avrà la bomba atomica”: la prima, ancora maggioritaria, ritiene che il regime iraniano sarà “pragmatico” e che costituirà una minaccia geostrategica per Israele e l’America; la seconda, dei falchi, considera l’Iran “irrazionale” e quindi una minaccia diretta allo stato ebraico; la terza, più piccola, vi vede l’occasione per una mutua riconciliazione. Nelle settimane scorse gli esperti hanno tirato fuori le cifre del possibile conflitto. Uri Milstein, uno dei più celebri analisti di Gerusalemme, ha stimato fra 50 e 100 mila il numero delle vittime israeliane in caso di guerra con Teheran. Il maggiore giornale israeliano, Yedioth Ahronoth, ha rispolverato il più credibile scenario nucleare del Center for Strategic and International Studies. La guerra durerebbe almeno tre settimane. Gli iraniani potrebbero avere tra i sedici e i ventotto milioni di morti. Molto “meno” gli israeliani: tra i 200 e gli 800 mila caduti. Alla fine, lo stato ebraico dovrebbe sopravvivere.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Le trappole 'appiccicose' e la pista del Mossad "
Guido Olimpio
Le bombe adesive sono diventate la firma degli attentatori di Teheran. Già nel novembre 2010 un ordigno simile fu impiegato per uccidere un altro scienziato iraniano. Le «appiccicose» (nel gergo degli artificieri) fanno parte del teatro regionale. In Iraq ne hanno usate a centinaia gruppi qaedisti e sciiti per eliminare funzionari o ufficiali. A Bagdad sostengono che sarebbero state «importate dall'estero». Semplice la «ricetta»: plastico, telefonino per innescare la carica, talvolta chiodi e biglie per ferire. Spesso ordigni molto piccoli, altre volte voluminosi, capaci di sventrare un autobus. Maneggevoli quel che basta per attaccarli sotto un veicolo o su una portiera. In passato hanno fatto parte dell'arsenale dei fedayn palestinesi durante la guerra civile a Beirut, dei separatisti nordirlandesi e anche della mafia israeliana. Uno dei boss è stato «liquidato» a Tel Aviv, nel 2008, in circostanze che ricordano quelle di Teheran. Per criminali o 007 sono gli strumenti ideali per far sparire un nemico. Quanto alle responsabilità appare intrigante la pista indicata da Parigi. Ieri Le Figaro — citando fonti dei servizi francesi — ha scritto di rapporti tra Mossad e ambienti curdi iracheni, vicini a Massud Barzani. Una collaborazione che conosce una nuova stagione in chiave anti mullah. Uno scenario che prevede l'uso di infiltrati curdi in Iran per compiere azioni di sabotaggio. Magari insieme a elementi dell'opposizione. Un network in grado di superare le misure di sicurezza del regime, compresa l'unità speciale dei pasdaran che deve proteggere gli uomini coinvolti nella ricerca atomica. Potrebbe essere questo patto segreto, forgiato dagli israeliani con gli amici curdi, a rallentare gli sforzi di Teheran. A meno che le voci non siano un diversivo per confondere i servizi e costringerli a inseguire falsi colpevoli. Nella guerra «segreta» in corso contro l'Iran c'è anche questo.
La STAMPA - Michael Klare : " Il prossimo conflitto scoppierà lungo le rotte di gas e petrolio "
Confessiamo la nostra ignoranza, non abbiamo mai sentito prima il nome di Michael Klare, riteniamo,quindi, che anche i lettori della STAMPA possano non conoscerlo. Perchè la STAMPA non ha scritto due righe sull'illustre sconosciuto in modo da informare i lettori ?
Michael Klare
Benvenuti nel pericoloso mondo dove un singolo incidente in una delle strozzature delle arterie energetiche globali potrebbe mettere a fuoco un’intera regione, far schizzare in alto il prezzo del petrolio e mettere in pericolo l’economia mondiale. Con la domanda di energia in crescita e le fonti di approvvigionamento in calo, stiamo di fatto entrando in una nuova era, l’«Era geo-energetica». E le dispute sulle risorse vitali domineranno gli affari internazionali nel prossimo futuro. Conflitti ed energia saranno ancor più legati fra di loro, dando sempre maggiore importanza ad alcuni punti geografici chiave.
Primo fra tutti lo Stretto di Hormuz, che già sta scuotendo il mercato dell’energia. Collega il Golfo Persico con l’Oceano Indiano e anche se non ha l’imponenza della rocca di Gibilterra o del Golden Gate, è probabilmente il passaggio più strategico del Pianeta. Ogni giorno passano attraverso lo Stretto di Hormuz 17 milioni di barili di petrolio, il 20 per cento del greggio consumato nel mondo. Così, appena un alto esponente del governo iraniano ha minacciato di bloccare lo Stretto come risposta a un’eventuale nuova tornata di sanzioni economiche da parte di Washington, il prezzo del petrolio è salito. Mentre le forze armate Usa hanno subito proclamato che avrebbero mantenuto lo Stretto aperto, le preoccupazioni degli analisti su una possibile crisi di lunga durata fra Teheran, Washington e Tel Aviv hanno gettato altre ombre sull’economia mondiale, già in rallentamento.
Lo Stretto di Hormuz, però, è solo uno dei molti punti caldi dove energia, politica e geografia sono intrecciati in un mix pericoloso. Vanno tenuti d’occhio soprattutto i mari cinesi, il Mar Caspio e l’Artico, ricco di idrocarburi e sempre meno coperto di ghiacci. In tutte queste regioni diverse nazioni si stanno disputando il controllo della produzione e del trasporto di energia e litigano su confini e diritti di passaggio. Le regioni chiave per la produzione, come il Golfo Persico, rimangono decisive, ma oro lo sono anche le strozzature come lo Stretto di Hormuz e quello della Malacca e le linee marittime di comunicazione, Slocs nell’acronimo inglese.
Lo si può già vedere nell’ultimo rapporto del Dipartimento della Difesa americano, presentato al Pentagono il 5 gennaio dal presidente Barack Obama e dal capo del Pentagono Leon Panetta. Mentre si immagina un corpo dei Marines più snello, il rapporto sottolinea con enfasi l’importanza delle capacità marittime e aeronautiche, specialmente quelle disposte a protezione delle reti mondiali per il commercio energetico. Nella nuova «Era geo-energetica» il controllo delle fonti di energia e il loro trasporto ai mercati sarà al centro delle crisi globali. Tre punti caldi sono da tener d’occhio in modo particolare: il già citato stretto di Hormuz, il Mar cinese meridionale, il Mar Caspio.
Lo Stretto di Hormuz è una stretta striscia d’acqua che separa l’Iran dall’Oman e dagli Emirati arabi uniti. È la sola via marittima fra il Golfo persico con i suoi giacimenti di petrolio e gas e il resto delmondo. Una notevolissima percentuale del greggio prodotto da Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati viene trasportato attraverso questo passaggio su base giornaliera. Per il dipartimento dell’Energia americano «è la strozzatura più importante per il petrolio a livello mondiale». Alcuni analisti hanno stimato che un blocco prolungato porterebbe a un aumento del 50% del prezzo del greggio e all’innesco di una recessione globale. È del tutto plausibile che gli iraniani mettano Washington alla prova. Ma può davvero l’Iran bloccare lo Stretto? Molti analisti ritengono che le dichiarazioni del ministro degli Esteri Mohammad al Ramihi e dei suoi colleghi siano un bluff teso a scuotere i leader occidentali, far crescere il prezzo del petrolio e strappare future concessioni se dovessero ripartire i negoziati sul programma nucleare. Ma le condizioni economiche in Iran stanno cominciando a diventare disperate, ed è sempre possibile che un leader estremista e disperato senta l’urgenza di qualche azione drammatica, anche a costo di una tremenda risposta Usa.
Il Mar Cinese meridionale è invece un parte semichiusa dell’Oceano Pacifico occidentale, delimitato a nord dalla Cina, dal Vietnam a Ovest, a Est dalle Filippine e a Sud dal Borneo. Il mare però comprende anche due grandi arcipelaghi praticamente disabitati, le isole Paracel e le Spratly. A lungo importante per la pesca, il Mar cinese meridionale incorpora anche un’importante via di comunicazione marittima fra Asia orientale, Medio Oriente, Europa e Africa. E più recentemente ha acquisito ulteriore importanza per la scoperta di giacimenti di petrolio e gas, con grandi riserve attorno alle Paracel e alle Spratly. Alcune delle isole nella zona ricca di idrocarburi sono rivendicate dalle nazioni confinanti, compresa la Cina, che ha mostrato la disponibilità di usare la forza militare per imporre il suo dominio nella regione. Inevitabili gli attriti con i vicini, alcuni alleati degli Stati Uniti. Il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha avvertito Washington a non interferire. Qualsiasi mossa «farebbe solo peggiorare la situazione e renderebbe più difficile una soluzione». È scoppiata una guerra di parole fra Usa e Cina. Durante una visita a Pechino, nel luglio 2011, il capo degli Stati maggiori congiunti, l’ammiraglio Mike Mullen ha espresso le sue preoccupazioni: «Il timore, fra i molti che ho, è che un incidente possa portare a conseguenze che nessuno aveva calcolato». Gli Stati Uniti hanno poi condotto massicce esercitazioni nel Mar cinese meridionale assieme a Vietnam e Filippine. La Cina ha risposto con sue manovre navali. Come nello Stretto di Hormuz, un incidente potrebbe portare a un confronto su larga scala.
Il Mar Caspio è uno specchio d’acqua interno delimitato da Russia, Iran e tre ex repubbliche sovietiche: Azerbaigian, Kazakhstan e Turkmenistan. Gli altri ex pezzi dell’Urss nella regione, Armenia, Georgia, Kirghizistan, lottano per scrollarsi di dosso la tutela di Mosca. Anche se non avesse immensi giacimenti di idrocarburi, il Mar Caspio sarebbe lo stesso l’epicentro di potenziali conflitti. Non è la prima volta che il Caspio è conteso in una lotta tra grandi potenze. Nel 1942 Hitler cercò disperatamente di impossessarsi dei pozzi di petrolio di Baku. Il fallimento fu l’inizio della sua disfatta. Ora, nuove scoperte di giacimenti, offshore questa volta, lo hanno riportato al centro degli appetiti.
Secondo il gigante petrolifero Bp, l’area del Caspio possiede riserve per 48 miliardi barili di greggio e 12 mila miliardi di metri cubi di gas. Più che le riserve di gas delle Americhe e quelle di petrolio dell’Asia. La Russia punta a diventare il distributore monopolista di queste ricchezze, attraverso la modernizzazione dei gasdotti sovietici e la costruzione di nuovi. L’Occidente ha lanciato un grandioso progetto, il Nabucco, per bypassarla attraverso Georgia e Turchia. La Cina ha firmato accordi con il Turkmenistan. Ma tutti questi gasdotti passano in aree segnate da conflitti etnici, secessioni territoriali, come quella dell’Ossezia del Sud, ribellioni islamiche come in Cecenia.
Il risultato è che le grandi potenze hanno legato i progetti di nuovi gasdotti a promesse di assistenza militare ai Paesi interessati. La guerra lampo tra Georgia e Russia del 2008 potrebbe essere una avvisaglia della potenzialità deflagrante delle rivalità attorno al Mar Caspio.
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " L'irreversibile scelta atomica "
Vittorio Emanuele Parsi
E' credibile un analista che scrive di 'governo di Tel Aviv'?
Tel Aviv non è la capitale israeliana e non è nemmeno la sede del suo governo, perciò l'espressione 'governo di Tel Aviv' è scorretta.
Parsi potrebbe informarsi con più accuratezza su ciò che scrive ?
chiediamo ai nostri lettori di farlo presente al direttore della STAMPA Mario Calabresi: direttore@lastampa.it
Ecco il pezzo:
Mustafà Ahmaddi Roshan è il quarto scienziato legato al programma nucleare iraniano che perde la vita a seguito di un attentato negli ultimi sei mesi. Si tratta di un segnale inequivocabile e inquietante della drammatica escalation della crisi che contrappone Teheran a una serie pressoché infinita di avversari. Le autorità iraniane hanno immediatamente accusato i servizi segreti dell’«entità sionista». Ipotesi plausibile, benché prontamente smentita dal governo di Tel Aviv, ma tutt’altro esaustiva, giacché sia i sauditi sia gli americani potrebbero ben aver organizzato, preso parte o supportato l’assassinio del professore. Proprio l’ampio ventaglio delle ipotesi plausibili circa la (o le) paternità dell’attentato testimonia dell’isolamento iraniano e della completa irrealizzabilità della sua aspirazione a essere riconosciuto come una «legittima» potenza regionale. Il presidente Ahmadinejad - che di un tale isolamento è tra i principali artefici - ha un bel darsi da fare a esibire amicizie nel Caribe e sulle Ande. La realtà è che, al momento, nessuno di quelli che contano (Cina, Russia) appare intenzionato a muovere un dito per sostenere l’Iran nel caso di un’azione militare diretta a distruggere gli impianti di arricchimento dell’uranio (ormai prossimo a una percentuale del 20%, ben al di là di quanto seriamente giustificabile con fini esclusivamente civili) proprio mentre una simile prospettiva si fa sempre meno irrealistica.
Le manovre navali iraniane nello allo Stretto di Hormuz, unite al lancio di missili a media e lunga gittata, e l’immediata replica americana, con l’invio di una portaerei della classe Nimitz a incrociare nelle stesso ristretto specchio d’acqua, indicano che nessuno degli attori principali di questo dramma appare intenzionato a fare un passo indietro. Lo spettacolo dello sciame di «Mas» e di microsommergibili iraniani è di quelli da far venire i capelli dritti in testa al comandante della John C. Stennis, ma il suo arrivo in prossimità delle acque territoriali iraniane rende letalmente vulnerabile l’intera rete dei siti nucleari iraniani e materializza lo spettro di un’azione militare volta alla loro distruzione (degli Stati Uniti da soli, di Israele e Usa congiuntamente, o in diverse combinazioni ipotizzabili). Con tutta evidenza si tratterebbe di un’iniziativa capace di infiammare un’area che è già più che surriscaldata. Ma è significativo che proprio a Washington crescano le voci che ritengono un attacco militare «il male minore», se paragonato all’alternativa di doversi confrontare con un Iran divenuto potenza nucleare. In tal senso, l’articolo comparso sull’ultimo numero di «Foreign Affairs» a firma di Matthew Kroenig è particolarmente esplicito nel porre la scelta tra «un conflitto convenzionale e un possibile conflitto nucleare». Paradossalmente, dovrebbe essere proprio Barack Obama a dare il via libera alla più classica delle «guerre preventive» tanto care alla dottrina neocon di George W. Bush, colpendo un avversario prima che diventi così forte da rendere l’azione troppo costosa e forse impossibile.
Certo, l’Iran potrebbe facilmente sottrarsi dalla scomoda posizione di oggetto di un simile drammatico dilemma, facendo un passo indietro, o mostrandosi disposto a trattare innanzitutto con gli occidentali e i vicini arabi, considerando nei fatti il nucleare un oggetto di scambio, sacrificabile in nome di altri più rilevanti obiettivi. Per lungo tempo una parte considerevole degli analisti e degli addetti ai lavori ha privilegiato una simile ipotesi, che ha perso però progressivamente credibilità, di pari passo con la crescente radicalizzazione del quadro politico interno iraniano e con l’aumentata consapevolezza che, alla fine, la possibilità di acquisire lo status di potenza nucleare è il solo «successo irreversibile» in politica estera oggi alla portata della Repubblica Islamica. Gli oltre 30 anni trascorsi dalla caduta dello scià hanno infatti dimostrato la straordinaria resilienza del regime di fronte agli attacchi esterni (si pensi alla lunghissima guerra difensiva contro l’Iraq di Saddam), ma anche la caducità degli altri risultati conseguiti. Il passare del tempo sta dimostrando che le guerre che l’America ha intrapreso in Iraq e Afghanistan non hanno privilegiato innanzitutto l’Iran (come molti sostenevano), ma semmai il Pakistan e soprattutto l’Arabia Saudita. La quale si presenta oggi anche come la gran beneficiaria della «fase due» delle rivoluzioni arabe, proprio mentre la sola effettiva alleanza intessuta da Teheran nella regione sta svanendo o diventando inutilizzabile a causa della crisi probabilmente definitiva del regime di Assad.
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Una fredda nebbia illividisce il cielo,
le notti incominciano prima.
Tutti conoscono il declino,
ma pochi ne discernono la linea di confine.
Cher03@hotmail.it
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