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[OT] Tea Party
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Cher
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RE: [OT] Tea Party

http://www.chicago-blog.it/2011/12/18/il...more-11044

Il rimedio alla crisi? Seguire la scienza economica – di Gerardo Coco

Dati recenti dell’OCSE mostrano rallentamenti della crescita economica per tutti i 33 paesi aderenti. In particolare, le previsioni percentuali di crescita del PIL dei Paesi occidentali per il 2012 sono nell’ordine dell’uno virgola: previsioni, ottimisticamente, recessive. La realtà è che la crescita in questi paesi è negativa perché i pil non misurano l’incremento reale di prodotto ma la spesa e questa è gonfiata dall’inflazione.La diminuzione dei pil significherà aumento di disoccupazione. Anche i tassi di interesse reali sono “in rosso” il che significa che gli investitori che tengono i propri risparmi in forma liquida o parcheggiati in titoli di stato o nel mercato monetario stanno tutti perdendo soldi. Una situazione sempre più incerta e volatile blocca gli investimenti industriali. L’assenza di sviluppo e quindi di reddito significa che il servizio del debito non potrà essere pagato. In questo contesto sarà sempre più difficile per i governi ottenere dal mercato nuovi prestiti.. I governi si troveranno tra l’alternativa del default o dell’inflazionismo che non è altro che un default perseguito con altri mezzi. Perseverando nelle misure macroeconomiche, fiscali e monetarie che ai fini dello sviluppo economico non valgono un iota, i governi hanno abbracciato con cocciuta e pericolosa ottusità la teoria dell’impoverimento progressivo.

Per i governi l’economia ha sempre significato, non un sistema di produzione e di scambio per allocare risorse scarse, ma semplicemente “spesa” , soprattutto spesa statale.

A questo fine, prima hanno pensato a drenare risorse dalla collettività tramite tassazione e successivamente, non bastando questa, hanno applicato all’economia intera una gigantesca leva finanziaria. La leva è il rapporto tra debito e capitale e poiché il divisore tende allo zero, il dividendo tende all’infinito. La progressione esponenziale del debito misura il grado di distruzione dell’economia. .

Nell’opinione popolare la spesa statale originata dal debito pubblico ha la stessa natura di quella originata dal capitale cioè dal risparmio. Ma la prima rappresenta inflazione pura e dissolve come un acido il secondo. Quando la società non è più capace di creare capitale decade immediatamente.

Per scampare ad una catastrofe economica certa c’è solo un rimedio: tagliare drasticamente la spesa pubblica e azzerare le tasse su redditi e capitali e sostituirle con una tassa sui consumi. Lo sviluppo che ne conseguirebbe sarebbe sensazionale e annullerebbe il debito in pochi anni. Un sogno? No, una realtà e la storia passata e recente lo dimostra.

Tornare a David Ricardo

L’economista inglese Alfred Marshall (1842 –1924) affermò che se per assurdo andasse distrutta la ricchezza materiale del mondo, ma rimanessero invece vive le idee in base alla quali essa fu formata, si potrebbe rapidamente ricostruirla. Queste idee sono racchiuse nell’apparato analitico creato da Adam Smith e da David Ricardo più di duecento anni fa. Il primo, che impostò in un unico corpo organico i problemi che sono stati oggetto di tutta la riflessione scientifica successiva, sostenne che la libertà di mercato era la premessa per la piena utilizzazione delle forze produttive e per il loro ulteriore sviluppo perché l’intervento dei governi, raramente efficace, è quasi sempre dannoso. Ricardo, rielaborando e perfezionando le analisi di Smith mostrò come, nella distribuzione del prodotto sociale, il ruolo del capitale fosse condizionante per l’aumento di prosperità generale.

“Il capitale – scrive Ricardo – è quella parte della ricchezza di un paese che viene impiegata a scopo di produzione futura e può aumentare allo stesso modo della ricchezza” (Principles of Political Economy and Taxation). Per chiarire: la parte che viene prodotta e che non va ad aumentare il consumo finale è investimento e poiché anche l’investimento, ossia il capitale, fa parte di ciò che il sistema economico complessivamente produce, tutto ciò che promuove l’espansione del sistema, promuove anche l’accumulazione di capitale. E’ l’ammontare del capitale a determinare la capacità dell’economia di produrre beni e servizi e di impiegare lavoro ed è il rapporto tra capitale e lavoro ad aumentare la produttività.

La tassazione sul capitale mina questo processo perché trasferisce il capitale dalle mani di chi produce nelle mani di chi consuma.

Ricardo scrive:

"“Nonostante l’enorme spesa del governo inglese negli ultimi venti anni è praticamente certo che l’aumentata produzione da parte della popolazione l’abbia più che compensata. Non soltanto il capitale non è stato intaccato, ma esso è grandemente aumentato e il reddito annuale della popolazione, anche detratte le imposte, è ora probabilmente maggiore che in qualsiasi altro periodo della storia inglese… È tuttavia certo che, senza l’imposizione questo aumento di capitale sarebbe stato molto maggiore. Non vi sono imposte che non tendano a diminuire la capacità di accumulazione. Tutte le imposte ricadono o sul capitale o sul reddito. Se intaccano il capitale riducono in proporzione il fondo la cui entità determina l’entità dell’industria produttiva; se ricadono sul reddito diminuiscono l’accumulazione o costringono i contribuenti a risparmiare l’ammontare dell’imposta e a diminuire in misura corrispondente il loro precedente consumo. ..I governi dovrebbero non imporre mai tributi che gravino inevitabilmente sul capitale perché così facendo essi intaccano i fondi destinati alla sussistenza dei lavoratori e diminuiscono la produzione futura del paese”. (Ibid)

Per Ricardo la riduzione di capitale ad opera della tassazione cambia il rapporto tra capitale e lavoro, ne abbassa la produttività marginale e quindi riduce il salario reale. Un sistema fiscale volto a salvaguardare il reale interesse dei lavoratori dovrebbe tassare solo la parte di reddito che viene consumata e non quella che viene risparmiata od investita perché è questa parte a creare lo sviluppo e l’occupazione.
Grazie alla dottrina di Ricardo l’Inghilterra divenne la più grande potenza industriale.

L’economista contemporaneo Arthur Laffer, (consigliere di Ronald Reagan cui si deve la famosa “curva Laffer” che mette in relazione l’aliquota di imposta con il gettito fiscale e per la quale esiste un livello del prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente e il gettito si azzera), scrisse che le ragioni principali per cui le economie declinano sono due: una tassazione esagerata e l’instabilità monetaria e sono questi due elementi che spiegano l’ascesa ed il crollo delle nazioni. Laffer si ispirava a Ricardo per entrambi gli aspetti. Ricardo, infatti, in uno dei suoi famosi pamphlet monetari (The High Price of Bullion, a Proof of the Depreciation of Bank Notes) scrisse che le politiche monetarie espansive e gli abbassamenti dei tassi di interesse avrebbe portato i paesi alla rovina. E ce ne siamo accorti. Ma le politiche monetarie espansive sono proprio la conseguenza della elevata tassazione la quale riducendo capitale e produttività porta alla recessione cioè alla contrazione dell’economia. Allora si cerca di combatterla con stimoli monetari che secondo i geniali economisti contemporanei, dovrebbero fare le veci del capitale; a sua volta il pompaggio di liquidità, creando inflazione, mina la stabilità valutaria.

È da settant’anni che si fanno queste politiche aspettandosi risultati diversi. Ci fu tuttavia l’intermezzo degli anni 80, gli anni di Reagan di Volker e della Thatcher, gli anni dei tagli fiscali, della stabilizzazione delle valute e della ripresa economica, anche se purtroppo negli USA non furono gli anni di riduzione della spesa pubblica.

Ma è la storia del Giappone dopo la seconda guerra mondiale a rappresentare un caso di scuola del paradigma ricardiano.

A partire da 1945 i politici giapponesi capirono che per ricostruire velocemente la loro economia distrutta dal conflitto, dovevano minimizzare le tasse su investimenti e capitali. Praticamente ogni anno e fino al 1970 ridussero l’imposizione fiscale. I guadagni in conto capitale, profitti, plusvalenze, interessi e rendite furono praticamente esentati. Quando fu loro chiesto come fosse possibile “finanziare” questi tagli, risposero che proprio i tagli avrebbero permesso all’economia di crescere abbastanza per originare nel futuro maggiori entrate fiscali per rinnovare il paese. I giapponesi compresero chiaramente che tutto il capitale esentato dalle tasse sarebbe stato automaticamente reinvestito nell’economia. La domanda di lavoro e l’occupazione aumentarono anno dopo anno. Assistiti da maggior capitale i lavoratori migliorano la produttività e ottennero salari crescenti.

Fu un’ascesa impressionante accompagnata da uno sviluppo tecnologico e sociale che fece del Giappone la seconda potenza mondiale e la più grande economia esportatrice con una valuta fortissima. Non si penalizzarono gli aspetti sociali, tutt’altro, nacque infatti il concetto sociale dell’impiego permanente nelle aziende (lifetime employment), cioè il posto di lavoro assicurato. Nel decennio 1960-1970 il PIL del Giappone quintuplicò. I leader dell’epoca avevano afferrato un principio empirico importante: l’incidenza fiscale non deve mai superare il 20% del PIL. E’ la cifra limite oltre la quale un paese entra nella zona a rischio. Perché? Perché i giapponesi capirono che è praticamente il settore privato ad essere responsabile dello sviluppo economico e non lo stato. Lo stato è il servitore della collettività che rappresenta, deve fornire servizi ed incoraggiare l’economia, non strangolarla.

Ma a partire dagli anni 80 il vento cambiò. L’incidenza fiscale sul PIL salì al 40% e cominciando a manifestarsi i segni recessivi e le nuove generazioni al potere abbandonarono il modello ricardiano per impalmare quello keynesiano di spesa pubblica, di stimoli monetari con tutto quel che segue: ipertrofia burocratica, bancocentrismo, lobbismo e una corruzione senza freni. Il destino del Giappone era segnato. Accumulò il debito interno più elevato del mondo ed entrò in una recessione permanente che dura da più di vent’anni.

Potremmo continuare a parlare del miracolo economico della Germania creato dal taglio delle tasse di Ludwig Erhard o del boom economico italiano iniziato nel 1948 (ma allora c’era un altro campione del libero mercato, Luigi Einaudi) a cui seguirono quindici anni di costante e sostenuto progresso economico ad un tasso del 6% ed una stupefacente esplosione di attività imprenditoriale.

Oppure di quello del decennio dal 1990 della Corea del Sud che grazie ai tagli fiscali triplicò il PIL in piena crisi asiatica o di quello di Hong Kong dove l’incidenza fiscale sui redditi e imprese non supera il 17%.

Se un paese vuole entrare in un’era di prosperità non ha che da seguire i principi della scienza economica, non quelli della macroeconomia che affida allo stato e alla banca centrale poteri illimitati riducendo chi produce e chi crea capitale al ruolo di servo che deve fare quello che vogliono i padroni.


Una  fredda nebbia illividisce il cielo,
le notti incominciano prima.
Tutti conoscono il declino,
ma pochi ne discernono la linea di confine.



Cher03@hotmail.it
18-12-2011 16:41
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