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[OT] Discussione in libertà (Piazzetta)
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Cher
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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

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E l'Italia regala milioni alle Ong che odiano Israele
Dove finiscono i fondi pubblici? Dietro i progetti umanitari, spesso c'è la propaganda pro palestinese
Jacopo Granzotto - Dom, 02/12/2012 - 07:15

Che stare dalla parte dei poveri palestinesi sia considerato (in Italia) politicamente corretto è cosa risaputa. Ma che i soldi dei contribuenti finissero per finanziare oscuri progetti «umanitari» per screditare Israele questo non tutti lo sapevano. Per fortuna c'è il web che ha evitato che il rapporto sui finanziamenti pubblici alle Ong che fanno deligittimazione di Israele finisse in cavalleria. Almeno 185 milioni di euro versati in 10 anni, anche da Regioni rosse non solo di vergogna (da parte loro 5 milioni di euro), non sono certo bruscolini. Dati approssimativi sicuramente inferiori alla reale portata dei finanziamenti. Dei 189 progetti, solo il 40 per cento del totale riporta il bilancio. C'è di che celare, evidentemente.

La chiamano cooperazione, ma finisce per scatenare odio verso Israele come da copione. Dicevamo delle Regioni, in prima fila nei finaziamenti ci sono (guarda caso) Emilia Romagna e Toscana. In totale, sono stati reperiti dati sul finanziamento pubblico alle Ong di 13 regioni su 20. Mancano all'appello, ma solo per difficoltà nel pubblico accesso ai dati, Valle d'Aosta, Piemonte, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia. Arco temporale 1995-2011. Recentemente il PdL ha presentato un'interrogazione sulla legittimità costituzionale di questi finanziamenti soprattutto in tempi di bilanci in rosso. Tra le Ong accusate di demonizzare Israele ci sono «Un Ponte per», «Operazione Colomba» e «Nexus Emilia Romagna». Spiega la questione Giovanni Quer, presidente delle associazioni «Italia-Israele» e «Informazione Corretta» che punta all'affermazione del concetto di condizionalità dell'aiuto (mai più aiuto a organizzazioni che sostengano il terrorismo anche solo moralmente»). «La delegittimazione di Israele è una strategia di guerra diplomatica che utilizza forme di demonizzazione, distorsione storica, boicottaggio e che definisce lo Stato di Israele come un paria della storia, negando il diritto all'esistenza. Gli attori più attivi nelle campagne di delegittimazione sono le organizzazioni non governative».

Nella raccolta dei dati sui fondi pubblici alle Ong operanti in Palestina si evidenziano problemi di trasparenza. I dati per la maggior parte non sono reperibili nei siti delle regioni, che espongono i finanziamenti alle volte dei soli ultimi 5 anni. Sovente non è riportata nemmeno la somma del contributo né la percentuale rispetto all'intero ammontare del costo del progetto. In nessun caso è riportata la composizione della commissione di selezione. Di frequente si nota uno stesso progetto, presentato dalla medesima associazione, finanziato da enti diversi in anni diversi. «In ogni caso - prosegue Quer - la modalità di intervento, l'esposizione del progetto, l'impostazione ideologica delle Ong hanno effetto delegittimante.

E da Israele il professor Gerald Steinberg, Università di Bar Ilan si appella al mondo politico italiano: «Milioni di euro pagati dai contribuenti italiani sono sperperati ogni anno in favore di un piccolo gruppo di Ong politicizzate che non realizzano obiettivi in particolare. Spero che l'Italia possa presto allinearsi a Gran Bretagna e Canada e fermare un tale e immorale spreco di denaro pubblico».

Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha condannato il via libera annunciato da Israele a tremila nuove case per i coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e ha chiesto allo Stato ebraico di prendere l'iniziativa per far ripartire i negoziati con i palestinesi. Il capo della diplomazia americana ha detto che Washington è «al fianco di Israele», ma ha aggiunto: «Queste attività fanno arretrare il negoziato di pace».


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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

http://www.youtube.com/watch?feature=pla...bdnu_R9G40


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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

LIBERAMENTE RIntepretato dal discorso del primo ministro Australiano...by Cher Dedicato a tutti i politici che si arrampicano sui vetri in tema di IMMIGRAZIONE!

GLI IMMIGRATI NON EUROPEI DEVONO ADATTARSI!
“Prendere o lasciare, sono stanco che questa nazione ( L'ITALIA ) debba preoccuparsi di sapere se offendiamo alcuni individui o la loro cultura.

La nostra cultura si è sviluppata attraverso lotte, vittorie, conquiste portate avanti da milioni di uomini e donne che hanno ricercato la libertà.

La nostra lingua ufficiale è l’ITALIANO, non L'Albanese, il libanese, l’arabo, il cinese, li Indi, o qualsiasi altra lingua. Di conseguenza, se desiderate far parte della nostra società, imparatene la lingua!

La maggior parte degli ITALIANI crede in Dio. Non si tratta di obbligo di cristianesimo, d’influenza della destra o di pressione politica, ma è un fatto, perché degli uomini e delle donne hanno fondato questa nazione su dei principi cristiani e questo è ufficialmente insegnato.

E’ quindi appropriato che questo si veda sui muri delle nostre scuole. Se Dio vi offende, vi suggerisco allora di prendere in considerazione un’altre parte del mondo come vostro paese di accoglienza, perché Dio fa parte delle nostra cultura.

Noi accetteremo le vostre credenze senza fare domande. Tutto ciò che vi domandiamo è di accettare le nostre, e di vivere in armonia pacificamente con noi.

Questo è il NOSTRO PAESE; la NOSTRA TERRA e il NOSTRO STILE DI VITA.

E vi offriamo la possibilità di approfittare di tutto questo. Ma se non fate altro che lamentarvi, prendervela con la nostra bandiera, il nostro impegno, le nostre credenze cristiane o il nostro stile di vita, allora vi incoraggio fortemente ad approfittare di un’altra grande libertà ITALIANA: IL DIRITTO AD ANDARVENE.

Liberamente RIntepretato da Cher dal discorso del primo ministro Australiano!


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RE: [OT] Discussione in libertà (Piazzetta)

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Anche la guerra in Irak ha il suo libro capolavoro
Yellow Birds del poeta mitragliere Kevin Powers racconta battaglie e amicizie sul fronte arabo. E mette nel mirino Hemingway e Remarque


Alessandro Gnocchi - Sab, 23/03/2013 - 08:3

«La guerra provò a ucciderci in primavera. Quando l'erba tingeva di verde le pianure del Ninawa e il clima si faceva più caldo, pattugliavamo le colline basse dietro città e cittadine.
Superavamo le alture e ci spostavamo nell'erba alta mossi dalla fede, aprendoci sentieri con le mani come pionieri, tra la vegetazione spazzata dal vento. Mentre dormivamo, la guerra sfregava a terra le sue mille costole in preghiera. Quando arrancavamo, sfiniti, i suoi occhi erano bianchi e spalancati nel buio. Se noi mangiavamo, la guerra digiunava, nutrita dalle sue stesse privazioni. Faceva l'amore e procreava e si propagava col fuoco. Poi, in estate, la guerra provò a ucciderci mentre il calore prosciugava dei colori le pianure».
Questo è l'incipit di Yellow Birds di Kevin Powers (Einaudi, pagg. 220, euro 16,50; in libreria da martedì) trascritto per intero perché ha il respiro del classico e il ritmo della grande poesia, ricorda The Waste Land di T.S. Eliot: «Aprile è il più crudele dei mesi...». Yellow Birds è stato un caso editoriale negli Usa e nel Regno Unito. Non perché abbia qualcosa di scandalistico, «unicamente» per la sua qualità artistica. Ecco due giudizi autorevoli tra i molti possibili. Tom Wolfe l'ha definito «il Niente di nuovo sul fronte occidentale delle guerre americane nei Paesi arabi». Colm Tóibin ha sottolineato la «musicalità della prosa, una squisita miscela di disciplina e frenesia che rispecchia l'azione e la pressione fisico-psicologica a cui sono sottoposti i personaggi».
Yellow Birds è il romanzo della battaglia di Al Tafar, provincia di Nineveh, Irak. Un romanzo scritto da un soldato-poeta, Kevin Powers, classe 1980, ex marine degli Stati Uniti, veterano di guerra. Nato in una famiglia dalla lunghissima tradizione militare, arruolatosi a 17 anni per guadagnarsi il college, inviato a combattere a Mosul e Al Tafar nel 2004-2005, ora Powers è impegnato nella stesura di un libro di poesie e di un secondo romanzo sulla Guerra civile americana. Nel frattempo fa incetta di premi con Yellow Birds. L'ultimo, recentissimo, è il Pen Hemingway Award 2013 per il miglior romanzo d'esordio.
In Yellow Birds delicatezza e brutalità convivono nella stessa pagina, nella stessa frase. Il titolo stesso allude a una canzone dell'esercito statunitense che in italiano fa più o meno così: «Un uccello giallo dal becco giallo si è posato sul davanzale della mia finestra. L'ho attirato con un pezzo di pane e ho spaccato la sua fottuta testolina».
La brutalità e la paura, dunque. Gli scontri a fuoco strada per strada, quelle strade da riconquistare ogni giorno, il nemico nascosto ovunque, difficile da identificare, pronto a farsi saltare in aria. La sensazione di muoversi sott'acqua, in apnea, quando ti sparano addosso. I lunghi insopportabili momenti di inattività addossato a qualche muretto, senza poter alzare la testa perché un cecchino può essere sempre in agguato. I reporter embedded, molesti come zanzare, incapaci di capire ma non di morire per un proiettile vagante. I generali pavoni davanti alle telecamere ma non per questo imboscati. Non tutti, almeno. Le spie e gli interpreti che rischiano tutto o forse sono doppiogiochisti, chi lo può dire con certezza? Gli atti di puro eroismo che sconfinano nell'incoscienza, senza nulla togliere alla nobiltà di chi mette la sicurezza altrui al primo posto. La vendetta insensata, disumana, sproporzionata. E poi la nausea crescente per la violenza. Il rifiuto di versare altro sangue come preludio alla morte perché segno di debolezza interiore, di una mancanza di convinzione che si paga subito. Il destino è crudelmente ironico, e punisce chi cerca di svegliarsi dall'incubo o gli incolpevoli. Perfino la natura sembra partecipare ai massacri, come testimonia il deserto acceso nella notte da fuochi in lontananza. Infine, non c'è pace neppure dopo la guerra. La mano del civile cerca ancora il fucile, i ricordi affiorano improvvisi, inclusi dettagli dolorosi che parevano perduti. È difficile adattarsi, viene voglia di sparire, di sottrarsi agli sguardi. È dura essere considerati un esempio quando il cuore è colmo di rimpianti.
E poi c'è la delicatezza dei sentimenti. Yellow Birds è soprattutto la storia di una amicizia, di una promessa difficile da mantenere e delle sue rovinose conseguenze. Il soldato Bartle (nome che richiama Bartleby, lo scrivano di Melville), prima di partire per la missione irachena, prende sotto la sua ala protettrice l'ancora più giovane soldato Murph. Bartle giura alla madre dell'introverso e sensibile Murph di riportarle il figlio a casa. L'ufficiale superiore assiste alla scena e rimprovera Bartle: mai sfidare il Fato. Le sorti di Bartle e Murph ora sono intrecciate per sempre, un fatto dalle ripercussioni imprevedibili. In Yellow Birds, tutto è contemporaneo ma la tragedia greca è dietro l'angolo. I classici sono così: colgono lo spirito del tempo e insieme sono senza tempo. Sono storie universali, come Yellow Birds, scritto dal poeta-mitragliere Kevin Powers. I giornali statunitensi hanno tirato fuori la parola «capolavoro»: per una volta non è un abuso promozionale.


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Il cercatore dal naso d'oro che vince i boss della coca
Inviato dall'Onu in Colombia a estirpare le coltivazioni dei narcotrafficanti. Al loro posto piantagioni di criollo, il cacao più raro (e più caro) del pianeta


Stefano Lorenzetto - Dom, 07/04/2013 - 08:50


Jean-Baptiste Grenouille, il protagonista del romanzo Il profumo di Patrick Süskind, si servì del suo olfatto demoniaco per mettere a punto un'essenza capace di dominare i cuori e le menti. Gianluca Franzoni, produttore di cioccolato d'alta qualità, s'è fatto guidare dal suo naso nella ricerca di una possibile via per affrancare l'umanità dalla schiavitù della cocaina. E c'è riuscito: su mandato dell'Unodc (United nations office on drugs and crime), l'ufficio dell'Onu per la lotta alla droga e la prevenzione del crimine, ha individuato due dipartimenti della Colombia, Santander e Nariño, nei quali, con l'ausilio dell'esercito, ha estirpato le coltivazioni di coca (10.000 ettari) controllate dai narcotrafficanti e messo a dimora cacao criollo, il più nobile e il più raro che esista, appena lo 0,001 per cento dell'intera produzione mondiale, quindi anche il più caro: 120 dollari al chilo il prodotto finito.

Attualmente sul pianeta si raccolgono solo 60 tonnellate l'anno di criollo, la metà delle quali cresce a Rio Caribe, in Venezuela, in una tenuta agricola partner della Domori, azienda del gruppo Illy con sede a None (Torino) che sta al cioccolato come la Rolls-Royce sta all'auto. Franzoni ne è il fondatore e il presidente.
Non c'è praticamente ingrediente o alimento per cui non abbia naso, un naso infallibile, questo bolognese di 47 anni, sposato con Katrina Smith, sommelier americana del Connecticut conosciuta durante una lezione sugli abbinamenti cioccolato-liquori che teneva (lui, non lei) all'hotel Hilton di Roma. Franzoni è abituato a fare colazione con 150 tipi di miele ricavati da altrettanti fiori esotici accuratamente selezionati nei cinque continenti e a insaporire le pietanze soltanto con fleur de sel, cristalli di sale marino provenienti dalle saline di Guérande, nella Loira Atlantica: «Poco cloruro di sodio e molti oligoelementi che esaltano la sapidità dei singoli componenti di un cibo. Non sono certo il tipo da farmi suggestionare dal sale rosa dell'Himalaya o altre etichette modaiole». E arriva sino al punto da procurarsi gli assoluti e gli oli essenziali con cui si crea da solo, e qui torniamo a Grenouille, i profumi per la toeletta mattutina: «Il mio preferito è a base di gelsomino, noce moscata, basilico, lime e altri 16 componenti, fra cui l'Opopanax chironium, detto anche mirra dolce, che cresce in Somalia. Ma anche quello di tuberosa, vaniglia e curcuma amada, conosciuta come mango ginger, non è male. Arrivo a vedere lo spessore del profumo, come se fosse un prodotto fisico».
Dopo la laurea in economia e commercio nel 1990, Franzoni ha prestato servizio militare nei carabinieri e poi ha lavorato come consulente aziendale negli studi di vari commercialisti. «Ho capito subito che non era la mia vita. Così nel 1993 sono partito per il Venezuela con un amico architetto. Abbiamo messo in piedi una società di servizi per la depurazione delle acque in hotel e resort. Ma era solo un pretesto per viaggiare». La vista di una fava di cacao nella foresta ha risvegliato in lui il romanticismo del ragazzo che leggeva Rudyard Kipling, Emilio Salgari e Alexandre Dumas. «Immagini mille fiori senza profumo e un frutto rosso-giallo-verde che non ha odore, grande quanto un melone, con una scorza dura come quella di una noce di cocco. Lo spacchi e ci trovi dentro dai 20 ai 50 semi avvolti da una mucillagine zuccherina. Quasi repellente. Eppure mi ha rapito».
Franzoni s'è subito messo in società con Alberto Franceschi, anziano immigrato originario della Corsica che discende da una famiglia di ambasciatori francesi arrivata in Venezuela nel 1830, rilevando il 50% della sua piantagione di cacao. Poi ha fondato la Domori: «In omaggio ai due mori posti sulla Torre dell'orologio di piazza San Marco a Venezia: nel mio immaginario la personificazione dei semi del cacao e del caffè, le mie passioni». Ha passato i successivi tre anni a tostare in padella e frullare criollo: «Quanti Moulinex ho bruciato, facendoli girare per ore!». Dormiva sulla spiaggia di Rio Caribe e mangiava a spese di papà e mamma, agenti di commercio nel ramo farmaceutico. Però alla fine è da quelle grossolane tavolette grezze di cacao purissimo che è nato il suo codice di assaggio, oggi adottato dagli intenditori di tutto il mondo.
Tornato in Italia dopo tre anni, Franzoni non era ancora convinto che quella del cioccolato fosse la sua strada. «Finché una mattina non sono stato svegliato da un piccolo di piccione imprigionato fra la tapparella e la finestra, che becchettava furiosamente il vetro. L'ho preso per un segnale divinatorio. E ho deciso di continuare».
Qual è il primo ricordo che ha del cioccolato?
«La Scorza della Majani di Bologna, somigliante alla corteccia di un albero, fatta con cacao e zucchero. Avrò avuto 8 anni. A casa mia era il dolce della domenica, al posto delle paste. Già allora preparavo torte di mele o di carote e panne cotte per i miei amichetti».
Ma lei ha un debole per i dolci?
«No, per gli alimenti puri. Quindi detesto la pasta all'uovo, perché la farina non deve farsi aiutare dalla gallina. Un'eresia, per un bolognese. Apprezzo invece la pasta di grano duro, che ha bisogno solo del frumento. Ogni ingrediente possiede un suo talento e lo deve esprimere in solitudine».
Quanto cioccolato mangia in un giorno?
«Circa mezzo etto».
Dovrebbe assomigliare a uno Zeppelin.
«Invece peso 70 chili. Ho un metabolismo veloce. Soprattutto consumo solo fondente al 100%. Pasta di criollo purissima. Cento grammi fanno 450 calorie. Nelle tavolette al 70%, il rimanente 30% è zucchero. Praticamente è come se mangiassi un frutto, la fava di cacao, ricca di polifenoli antiossidanti che combattono i radicali liberi, l'ipertensione e il diabete, proteggono l'apparato cardiovascolare, riducono il colesterolo, rallentano il processo di invecchiamento delle cellule. Senza contare la teobromina e la tiramina, antidepressivi che hanno un benefico effetto sul tono dell'umore».
Chissà che cosa penserà della Nutella.
«Ne ho mangiata tanta. È un signor prodotto, che ha avuto successo soprattutto per il fatto d'essere spalmabile. Ma c'entra poco col cacao».
Come lavora un imprenditore nel Venezuela marxista, ora orfano di Hugo Chavez?
«Per fortuna il cacao non è considerato un bene strategico come il petrolio. La qualità criollo, poi, ha un peso insignificante sulla bilancia commerciale. Nonostante il Venezuela rappresenti per la genetica del cacao una sorta di eden, un po' come l'Italia per le varietà d'uva, i latifondisti preferiscono coltivare il forastero, una qualità non nobile ma di vasto consumo».
Perché non puntano sul criollo?
«È una pianta che dà poca resa e resiste meno alle patologie vegetali. E poi il fondente nel mondo viene lavorato in piccole quantità. Nel cioccolato al latte, che va per la maggiore, il cacao rappresenta appena un 10%».
In Colombia come c'è arrivato?
«Attraverso Letizia e Gian Marco Moratti, sostenitori della comunità di San Patrignano. Il primo incontro con l'Unodc e i rappresentanti del governo di Bogotá si è tenuto lì. Per bonificare le aree dove i narcotrafficanti facevano coltivare la coca, oltre al cacao abbiamo piantato il caffè e l'Hevea brasiliensis, l'albero della gomma. Vado in Colombia a istruire i contadini due volte l'anno, scortato dall'esercito».
E a None, dintorni di Pinerolo, come c'è finito?
«Non avevo i macchinari per lavorare il cacao in Italia, per cui mi sono appoggiato a un ex dipendente della Streglio proprietario d'un laboratorio di tostatura per conto terzi. Alla fine l'ho rilevato. Ho vivacchiato così fino al 2006, producendo cacao per intenditori. Ma per poterlo esportare c'era bisogno di un investimento che andava oltre le mie possibilità. M'è venuto in soccorso Riccardo Illy. Suo nonno Francesco, l'ungherese che nel 1933 fondò l'industria del caffè a Trieste, agli inizi si occupava anche di cacao. Per i discendenti è stato un ritorno alle origini».
Mi par di capire che il cioccolato alla marijuana, prodotto con i semi di cannabis da una ditta di Pontremoli, lei non lo farebbe mai.
«Mai! Smentirei me stesso. E poi gliel'ho detto: detesto le commistioni fra ingredienti, specie se cervellotiche».
La crisi economica influisce sui consumi di cacao?
«Eccome. In modo favorevole».
Mi prende in giro?
«No, affatto. Il cioccolato è un prodotto anticiclico. Quando le cose vanno male, se ne consuma di più. È gratificante, consolatorio, euforizzante».
Perché il fondente costa così caro?
«Perché è fatto quasi interamente con pasta di cacao. Le fave di criollo vengono 8.000 dollari la tonnellata, contro i 2.500 del forastero. Dopodiché serve una lunghissima lavorazione».
Lunghissima quanto?
«Una volta raccolti, i semi vanno messi a fermentare come mosto per due giorni in casse chiuse, nelle quali la temperatura arriva a 50 gradi. Poi vengono smossi con una pala e ossigenati per altri quattro giorni, a volte anche meno, dipende dalle varietà. Quindi bisogna seccarli al sole dai tre ai cinque giorni. Nel trasporto la fava di cacao non deve scendere sotto l'8% di umidità. Arrivata in Italia, si tosta per circa 20 minuti a 120 gradi e si frange, togliendo la pellicola protettiva. Durante la macinatura la granella fonde, passa per attrito dallo stato solido a quello liquido, ed ecco ottenuta la pasta di cacao».
Il cioccolato bianco non è un controsenso?
«Non è cioccolato. È burro di cacao, latte in polvere e zucchero. Lo odio».
Al cacao viene imputato lo scatenamento degli attacchi di cefalea.
«So di un omeopata che invece lo usa per farci le compresse contro il mal di testa».
Favorisce l'acne.
«Falso».
È come una droga. Chi ama il fondente, arriva col fiuto a scoprire se in casa c'è un tavoletta di cioccolato nascosta da qualche parte. E, quando l'ha scartata, in genere la finisce.
«Fra i 700 composti del cacao vi è un neurotrasmettitore, l'anandamide, il cui nome deriva dal sanscrito ananda, beatitudine, che ha un effetto simile a quello dei cannabinoidi, le sostanze psicoattive presenti nella cannabis».
Dal 1971 sono usciti 10 film imperniati sul cacao: Willy wonka e la fabbrica di cioccolato, Cioccolato bollente, un Chocolat nel 1988, un altro Chocolat nel 2000, Come l'acqua per il cioccolato, Fragola e cioccolato, Grazie per la cioccolata, Vaniglia e cioccolato, La fabbrica di cioccolato, Lezioni di cioccolato e Lezioni di cioccolato 2. Come lo spiega?
«Sono quasi tutte pellicole nelle quali le donne hanno un ruolo centrale. Non ho ancora capito se il cacao sia maschio oppure femmina, anche perché il suo fiore è ermafrodito. Probabilmente è femmina. Ha troppa sensibilità».
Chi avrà assaggiato per primo i semi di cacao?
«Cristoforo Colombo, al largo dell'isola di Guanaja, davanti alle coste dell'Honduras. La parola cioccolato viene dall'azteco chocolatl. Lo scopritore dell'America vide gli indios che trattavano i semi neri come se fossero pepite d'oro. Sulle prime lui li aveva scambiati per escrementi di capra».
Com'è che ai nostri giorni sulla faccia della terra non si scopre più nulla di nuovo che sia commestibile?
«Non è vero. Quando vado in Amazzonia, mangio sempre le cose di cui si cibano gli aborigeni, compresi certi tipi di frutti silvestri mai visti prima. In Colombia ho pure assaggiato le formiche culone. Sono secche e croccanti. Ma non ci sono certo arrivato per primo: ne andavano pazzi già gli indigeni nel XVI secolo. Oggi sono quasi estinte a causa della caccia indiscriminata per l'esportazione: americani, messicani e tedeschi le considerano un potente afrodisiaco».
Si sarà rimpinzato di uova pasquali, immagino.
«Non le ho mai mangiate, neppure da bambino. Cacao allungato con latte e zucchero: non fa per me».
(643. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it


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Quel patto con la massoneria è il nuovo mistero vaticano
Un cardinale rivela: prima del conclave un porporato ha denunciato gli "affari" delle Logge nella Chiesa ed esortato a "chiudere la vicenda"


Fabio Marchese Ragona - Dom, 12/05/2013 - 07:38


«Oggi dobbiamo seriamente affrontare il problema e fare di tutto per trovare possibili infiltrati dentro al Vaticano».

Un discorso lungo, dettagliato e senza mezzi termini, tenuto da un cardinale presente alle congregazioni generali che hanno preceduto il conclave dal quale è uscito Papa il gesuita Jorge Mario Bergoglio.

Tra lo stupore dei confratelli, il porporato, inizia a leggere il testo di svariate cartelle, fino a quando non pronuncia quella parola che nessuno avrebbe immaginato venisse detta proprio in quella sede: massoneria.

Il retroscena di quelle lunghe giornate d'inizio marzo viene raccontato a Il Giornale da un cardinale italiano che, come tutti gli altri, si trovava all'interno dell'Aula nuova del Sinodo dove i porporati lavoravano a ritmi serrati in vista della clausura in Sistina: «L'affaire dei massoni in Vaticano sta diventando troppo grande», avrebbe detto all'assemblea il porporato durante una delle riunioni presiedute dal decano Angelo Sodano, «il collegio cardinalizio deve muoversi per impedire che questa gente possa stare nel cuore della Chiesa e dev'essere uno dei primi punti da affrontare con il nuovo Pontefice eletto».
La massoneria torna quindi a scuotere le sacre stanze e a far discutere cardinali e laici. Questa volta però sembra esserci uno scossone finale: la parola d'ordine che filtra Oltretevere è «tolleranza zero» verso i possibili infiltrati, tanto che, come racconta l'eminenza anonima, «un gruppo di cardinali sarebbe intenzionato a parlare dell'argomento con Bergoglio alla prima occasione utile». Ma a render ancor più attuale il tema è un nuovo libro, Vaticano massone. Legge, denaro e poteri occulti: il lato segreto della Chiesa di Papa Francesco pubblicato da Piemme e scritto a quattro mani dai giornalisti Giacomo Galeazzi e Ferruccio Pinotti. All'interno del testo, corredato anche da qualche documento, si parla anche di eminenze e laici, dipendenti del Vaticano, appartenenti a logge segrete che avrebbero avuto un ruolo determinante nel furto di documenti dall'appartamento del Papa, nelle dimissioni di Benedetto XVI e nell'elezione di Francesco al soglio pontificio.

Nel volume di oltre 500 pagine viene pubblicata anche una lettera indirizzata a Papa Giovanni Paolo II: il mittente è l'allora Gran Maestro della loggia massonica Grand'Oriente d'Italia, Virgilio Gaito, che insieme al cardinale Silvio Oddi (già Prefetto della Congregazione per il Clero e scomparso nel 2001) chiede al Pontefice di seppellire l'ascia di guerra perché «è giunto il momento di lanciare un doveroso appello alla riconciliazione che ponga fine a questa secolare incomprensione tra Chiesa Cattolica e Massoneria».

Appello del Gran Maestro a Wojtyla che rimarrà inascoltato: insieme al prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, Giovanni Paolo II manterrà durante tutto il pontificato la linea dell'inflessibilità.

Era stato sempre il Papa polacco nel 1983 a promulgare il nuovo codice di diritto canonico, inserendo anche un canone riguardante le logge massoniche. In un documento pubblicato lo stesso giorno dell'entrata in vigore del codice, infatti, l'allora prefetto Ratzinger chiarì che per un cattolico appartenere a una loggia massonica significava compiere un grave peccato, con il divieto di fare la comunione, senza alcuna deroga.

Un tema che ancora oggi continua a far parlare di sé e che resta comunque in primo piano, lasciando un alone di mistero alla Dan Brown sulla presenza o meno dei massoni in Vaticano. Domanda alla quale hanno cercato di rispondere anche i porporati durante le congregazioni pre-conclave, ricordando quel fumo di Satana entrato da qualche fessura all'interno della Chiesa, di cui aveva parlato nel giugno del 1972 Papa Paolo VI. «Serve un impegno da parte nostra», avrebbe detto il cardinale all'assemblea di confratelli, «per chiudere la vicenda una volta per tutte. Senza tentennamenti e per il bene della Chiesa».


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