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Stop tedesco al nucleare. Scommessa con tre rischi
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Cosa implicherà il "no" della Germania all'energia nucleare di Carlo Stagnaro
La Germania abbandona il nucleare. È l'effetto combinato dell'incidente alla centrale giapponese di Fukushima Daiichi e del flop elettorale della Cdu, il partito della cancelliera Angela Merkel. Così Berlino reintrodurrà una norma voluta dal precedente esecutivo rosso-verde guidato da Gerhard Schroeder, che proprio Merkel aveva cancellato. In pratica, le centrali nucleari esistenti, allo scadere delle loro licenze di esercizio di durata generalmente quarantennale, dovranno essere spente e non potranno più essere sostituite da altri impianti atomici. Alle otto centrali più vecchie che cesseranno l'attività quest'anno, gradualmente seguiranno le altre nove, fino alla completa fuoriuscita dall'atomo nel 2022.
Naturalmente, questa manovra non è esente da costi. di almeno tre tipi. Anzitutto, c'è un problema di sostituzione: il nucleare copre circa un quarto del fabbisogno elettrico tedesco (nel 2010, il 23 per cento). Cancellare gli impianti in un decennio significa sostituire una fetta consistente del parco di generazione, che solo in parte potrà essere rimpiazzato - come dichiara lo stesso governo - da un aumento delle importazioni dalla Francia (ironicamente, di energia nucleare). Per mettere in campo gli investimenti necessari, l'industria elettrica dovrà muoversi in tempi stretti e le autorità dovranno tener botta. Ciò implicherà un aumento della dipendenza dal carbone e dal gas naturale, che oggi coprono rispettivamente il 42 e il 12 per cento dell'elettricità tedesca.
Il ricorso alle fonti pulite è limitato non tanto da una questione di costi, pure non irrilevante, quanto dal fatto che le centrali nucleari sono impiegate per la copertura del cosiddetto "carico di base", cioè quella parte della domanda che resta costante 24 ore al giorno per 365 giorni l'anno: non ci si può affidare a fonti intermittenti e non programmabili, che dipendono dalle bizze del meteo.
Questo conduce a un secondo tipo di costo: aumenteranno le emissioni in un Paese che già è un grande emettitore (ogni tedesco produce 11 tonnellate di C02 l'anno, contro le 8,5 degli italiani). In più, l'industria elettrica tedesca dovrà spendere la maggior parte delle sue risorse nel "nocciolo" del sistema elettrico, e quindi potrà dedicarne meno alle energie verdi.
Terzo e ultimo, i tedeschi - come gli italiani dopo il referendum dell'87 - dovranno affrontare lo sforzo del decommissioning degli impianti con una mentalità da "fine del mondo", più che come un passaggio nel ciclo vitale di una tecnologia che comunque sopravvive al funerale dei singoli impianti. Tant'è che le azioni delle "quattro grandi" imprese tedesche forti nel nucleare - Rive, E.On, Vattenfal e Enbw - hanno registrato una immediata e dura flessione.
È difficile, in questo momento, dire se e quanto ciò impatterà sulla bolletta tedesca - e dunque sulla competitività del Paese. Di certo aumenterà la dipendenza estera e soprattutto i prezzi elettrici tedeschi, anziché essere ancorati a uno zoccolo nucleare stabile, saranno maggiormente influenzati dalla volatilità dei mercati internazionali. La rinuncia al nucleare è la scommessacon cui Berlino abbandona la via vecchia della stabilità per quella nuova dell'incertezza, che, per un'economia dove l'export manifatturiero è baricentrico, non è priva di profili di rischio (e di opportunità). Ma la vera sfida, prima ancora di osservare i risultati del "cambio di paradigma", sta nel metterlo in pratica in tempi così stretti.
Da Il Secolo XIX, 31 maggio 2011