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[OT] Tea Party
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[OT] Tea Party

Con questa nuova rubrica, OT rispetto al forum, vuole riunire tutti le informazioni su questo interessante movimento definito "Tea Party", per conoscere il movimento ed informare i lettori di cosa propone.
Essere costruttivi nelle fasi più critiche è sinonimo di responsabilità, non ultimo creare uno stimolo per coinvolgere autorevoli menti in questo, ormai deserto forum.
Grazie per l'attenzione.


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RE: [OT] Tea Party

http://www.loccidentale.it/node/111791

Tea Party - Cronache del mondo conservatore
Gli Usa e Benedetto XVI: i difensori dei principi non negoziabili


di Marco Respinti 2 Dicembre 2011

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del
Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.
http://www.russellkirk.eu/

Mi si darà del disadattato ‒ come dar torto ‒, ma io la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America continuo a leggerla e a rileggerla. Anzitutto e soprattutto poiché completamente inappagato da quei riduzionismi liberal, da quelle distorsioni progressistiche e da quelle soperchierie “libberali” che nei secoli ne hanno completamente stravolto l’anima, facendone uno strumento buono per tutte le stagioni, una panacea della “demokrazia” senza “se” e senza “ma” (furono processi democratici ed elettivi quelli che portarono Adolf Hitler al potere in Germania, sono processi democratici ed elettivi quelli che oggi portano i Fratelli Musulmani al potere nei Paesi delle “primavere” arabe e i salafiti un passo subito dietro) e un veicolo dell’esportazione nel mondo del relativismo (sic) più aggressivo. La leggo e la rileggo per questo, ma non solo.

A leggere e a rileggere quel testo scritto nell’estate del 1776 vi ho infatti scovato il magistero di un pontefice romano di più di duecento anni dopo, Papa Benedetto XVI, a proposito dei «princìpi non negoziabili».

L’espressione «princìpi non negoziabili» è stata coniata dalla Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno politico dei cattolici nella vita politica emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede (allora presieduta dal cardinal Joseph Ratzinger) il 24 novembre 2002, dal famoso discorso rivolto da Benedetto XVI ai parlamentari del Partito Popolare Europeo il 30 marzo 2006 e dal discorso del medesimo pontefice agli uomini politici e ai religiosi partecipanti al convegno sull’Europa organizzato dalla Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece) del 24 marzo 2007. E il discorso pronunciato il 17 ottobre 2011 dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, al forum dei cattolici impegnati in politica, svoltosi a Todi, ne ha ribadito la cogenza.

I «princìpi non negoziabili» sono pochi, tre appena. La difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale (contro aborto, eutanasia, manipolazione del gene umano, clonazione e così via). La difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna, quindi dell’istituto familiare che nasce solo dall’unione eterosessuale (contro il riconoscimento giuridico dell’unione tra persone omosessuali e delle coppie di conviventi).

La difesa della libertà di educazione, cioè il diritto della famiglia di scegliere come e dove educare i propri figli (a favore della parità tra scuola pubblica statale e scuola pubblica paritaria finanziata privatamente). Questi princìpi sono valori in senso assoluto. Non sono gli unici valori, ma sono principiali: ovvero quelli in base ai quali si valutano tutti gli altri.

Per questa ragione sono non-negoziabili. Essendo il principio e il fondamento del resto, non si possono cioè discutere, omettere, ridurre, stravolgere, negare, smozzicare, barattare. Ci sono e basta.
Tutti gli altri valori sono invece negoziabili giacché non sono assoluti. Sono relativi. Il loro valore è dato cioè dalla relazione che hanno con i princìpi. Parametro e valutazione, criterio e interpretazione. En passant vale ricordare che questa distinzione logica e netta tra princìpi e valori va sempre tenuta presente. Ciò non significa che i valori contino “meno”, ma che contano diversamente. Anzi, che i valori contano solo se in relazione ai princìpi; o, detto in modo inverso, che senza i princìpi tutti gli altri non hanno valore.

Per esempio: l’accoglienza del prossimo o la questione dell’immigrazione contengono e veicolano valori importanti, talvolta decisivi, ma sono nulla se sganciati dal principio inderogabile del diritto alla vita. Altro esempio: solo la difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna, ergo della famiglia, consente la discussione senza confusione della condizione omosessuale o dei diritti che spetterebbero a tutte le unioni diverse da quella matrimoniale.

I valori che traggono significato e cogenza solo dal riferimento organico ai princìpi sono infatti misure. La sussidiarietà, che è cosa preziosissima, è la misura verticale che indica “quanto Stato” sia lecito e necessario in un dato frangente o contesto storico. La solidarietà, cosa santa, è la misura orizzontale di quanta carità sia necessaria a sorreggere la libertà responsabile del prossimo.

Insomma, i «princìpi non negoziabili» fondano la retta convivenza tra gli uomini tutti poiché pongono condizioni tabù e limiti invalicabili alla capacità di distruzione della natura stessa delle cose e sua che l’uomo ha il potere fisico – tecnico – di operare, permettendogli al contrario di compiere appieno la sua libertà creativa. Sono il progetto in base al quale l’architetto erige l’edificio; sono il campo da gioco fuori dal quale si cade in fallo sanzionabile; sono la struttura del reale che l’uomo trova al suo venire al mondo: tutte le volte, infatti, che l’uomo cerca di sfidarli, eluderli o ignorarli, i suoi costrutti gli rovinano addosso.

A duecento e più anni dalle parole della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti il magistero di Papa Benedetto XVI fa dei «princìpi non negoziabili» il fulcro politico delle cose poiché i «princìpi non negoziabili» non sono cosa cattolica. Se lo fossero, i «princìpi non negoziabili» sarebbero solo ad appannaggio di alcuni uomini, non potrebbero prescindere dal dono gratuito, misterioso e insondabile della fede nella Rivelazione, andrebbero predicati solo negli orti conchiusi delle chiese e degli oratori. Sarebbero, insomma, una realtà parziale.

Papa Benedetto XVI ne fa invece un discorso al mondo perché sono la dottrina sociale e la teoria politica universali di qualsiasi umanesimo che non voglia essere solo la caricatura di se stesso. Valgono, i «princìpi non negoziabili», per tutti gli uomini. Anzitutto perché non sono gli uomini ad avere progettato la realtà nel modo in cui i «princìpi non negoziabili» la descrivono. In secondo luogo perché sono l’abc di ogni convivenza, snobbando i quali vi è solo tremore di paura e stridore di denti per il dolore. Non sono, i «princìpi non negoziabili», una “imposizione della Chiesa”: sono la regola con cui gira il mondo, che piaccia o no, e, come tali, o li si rispetta costruendo o li si bistratta distruggendo.

Del resto, i «princìpi non negoziabili» non li ha certo inventati Papa Benedetto XVI. I «princìpi non negoziabili» sono se stessi da che mondo e mondo. Oggi assumono formulazioni specifiche, adatte all’ora presente, ma ciò è accaduto sempre nella storia. I «princìpi non negoziabili» sono sempre gli stessi, ma vengono specificati in modo speciale di volta in volta a seconda del volto che la minaccia alla loro realtà inderogabile assume nella storia.

Quando, nel 1912, in Italia fu lanciato il cosiddetto “Patto Gentiloni”, che prevedeva un accordo politico in vista delle elezioni del 1913 in base al quale i cattolici avrebbero votato quei candidati moderati che avessero sottoscritto un eptalogo, cioè sette punti irrinunciabili per la dottrina sociale della Chiesa, i «princìpi non negoziabili» ‒ che non si chiamavano (ancora) così, ma che erano la medesima cosa di sempre ‒ furono formulati in base dell’aspetto che le urgenze di sempre assumevano in quel momento preciso. L’eptalogo non parlava, cioè, di aborto o di matrimonio eterosessuale solo perché la sfida alla norma della natura delle cose e dell’uomo di quel tempo bordeggiava su altri lidi, quelli tipici e adatti alla società dell’epoca.

Se in una società storica dove non esista l’emergenza dell’omosessualità, ma per esempio esista un “problema sociale” legato all’adulterio, la formulazione specifica del “principio non negoziabile” relativo alla difesa del matrimonio eterosessuale e dell’istituto familiare in quel luogo e in quel tempo specifici insisterà più sulla fedeltà coniugale che non sui rapporti fra persone dello stesso sesso, senza però che per quel tempo e per quel luogo l’omosessualità diventi giusta e lecita o la fedeltà coniugale scenda in “serie b” in altra epoca e in altro luogo in cui vi fossero molti gay.
Secondo esempio.

Difendere la libertà educativa in un Paese totalitario è diverso dal farlo nel contesto di una società occidentale, ma il valore assoluto che si difende resta invariato anche se il modo, il linguaggio e gli accenti con cui lo si fa differiscono. Ciò che invece, stando ai due esempio sopra esposti, non avviene mai è che l’eterosessualità o la libertà di educare i propri figli smetta di essere un principio assoluto o che nel novero dei «princìpi non negoziabili» ne entrino altri in aggiunta o in sostituzione. Per questo nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 1776 ho scoperto il magistero di un Papa di là ancora da venire.
In detto documento statunitense ‒ nel suo preambolo, cioè a base e fondamento cronologico, logico e ontologico di tutto quanto viene (scritto) dopo ‒ si legge: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi diritti vi sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i propri giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o di abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali princìpi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua sicurezza e la sua felicità».

Sono i «princìpi non negoziabili» del magistero di Papa Benedetto XVI. Formulati secondo le priorità di quel tempo e di quel luogo, ma esattamente nel medesimo ordine (non solo formale). Il magistero politico-culturale degli Stati Uniti postula cioè alla base di tutto verità evidenti che per ciò stesso non occorre – non è necessario e nemmeno giusto – “spiegare”. Queste verità tali sono al principio e mai discutibili. Fondano il resto. Le ha poste un Creatore, che dunque esiste (gli Stati Uniti pongono a inizio e a fondamento di se stessi l’esistenza evidente, che appunto non occorre spiegare, di Dio, e proprio del Dio della Rivelazione giudaico-cristiana, poiché se ne parla come di Creatore, un attributo peculiare sconosciuto alle altre divinità). Solo perché Egli esiste, si può dire che gli uomini siano – siano da Lui creati – uguali, la loro eguaglianza essendo solo la “dotazione” di diritti che promanano da verità principiali e che per questo sono valori assoluti. Ve ne sono diversi. Tra questi il primo è la vita, il secondo la libertà, il terzo il perseguimento della felicità.

La Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti pone cioè a base di tutto il principio non negoziabile del diritto alla vita esattamente come fa come il magistero di Benedetto XVI. Quindi enumera la libertà senz’aggettivi, che è il modo concreto con cui in quel luogo e in quel tempo si corrisponde anche alle urgenze odierne della libertà di educazione. Infine elenca il perseguimento della felicità, che non è la (mera) sua ricerca: gli statunitensi non chiedevano infatti alla Dichiarazione d’Indipendenza di sancire un vago diritto a un’altrettanto vaga idea di ricercare la felicità da qualche parte perché essi la felicità sapevano bene dove sta, per esempio che ne insegnano il cuore le Sacre Scritture, e comunque non una petizione di diritti rivolta a una madrepatria che in quell’istante stesso diventava ex; pretendevano invece che le persone fossero lasciate libere di costruirsi una casa dove ottenere concretamente quanta più felicità possibile, anche educando i propri figli al meglio.

Del resto, dietro la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti vi è una lunga tradizione occidentale che da sempre insiste sul medesimo registro e una delle formulazioni classiche di esse è la filosofia dei “diritti naturali” (non solo di lockeana memoria). Ovvero di quelle cose che appartengono e pertengono alla persona umana per sua stessa natura data, cioè creta: vita, libertà e proprietà. Uguale alla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, uguale al magistero di Papa Benedetto XVI. Il concetto di «proprietà» di questa tradizione viene riformulato dalla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti con l’espressione «perseguimento della felicità» perché quest’ultimo documento esprime in un modo adatto al suo tempo e al suo luogo la medesima necessità avvertita anche prima del 1776 nordamericano di far sì che la persona possa liberamente agire per organizzare in autonomia e sovranità, cioè contro ogni coercizione, la propria esistenza (educazione dei figli compresa).

Aveva davvero ragione il padre gesuita John Courtney Murray (1904-1967) nel dire che la filosofia politica degli Stati Uniti d’America si comprende meglio, anzi solo alla luce della tradizione cristiana, quella tradizione che è il compimento di verità naturali alla portata ragionevole di ogni uomo intero.


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RE: [OT] Tea Party

Cher ha Scritto:

creare uno stimolo per coinvolgere autorevoli menti in questo, ormai deserto forum.



dopo il referendum di giugno è drasticamente diminuito l'interesse sul nucleare.

11-12-2011 00:56
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RE:  [OT] Tea Party

magnesium ha Scritto:



dopo il referendum di giugno è drasticamente diminuito l'interesse sul nucleare.



Vedrai che tornerà l'interesse al nucleare con una consapevolezza inaspettata per gli scettici.

Il fallimento delle rinnovabili, la crisi sistemica delle economie occidentali unite alle sempre maggiore richiesta di energia a basso costo, porterà a scelte impopolari ma neccessarie, ad esempio la ripresa dei progetti di centrali nucleari sul territorio europeo.Toungue
Non dimentichiamo che con una cinquantina di centrali da 1,6 M cad l'Europa uscirebbe dalla crisi alla velocità dei neutrini, che come scientificamente dimostrato , viaggiano ad una velocità superiore della luce! Smile
Poco importa se alcuni stati europei non vogliono le centrali sul loro territorio, si costruiscono dove non creano proplemi all'opinione pubblica e creano lavoro ben retribuito! Mediamente 5000 posti li lavoro per centrale!
Basta dare una occhiata a cosa successe dopo la crisi petrolifera degli settanta, riprese il nucleare con determinazione.
Alcuni segnali sono già evidenti, tornerò sull'argomento come ho un pò di tempo.
Grazie Magnesium che ti sei fatto sentire.


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Messaggio modificato il: 11-12-2011 alle 11:05 da Cher.

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RE:   [OT] Tea Party

Cher ha Scritto:


Grazie Magnesium che ti sei fatto sentire.


ma guarda che leggo tutto e vi osservo sempre Big Grin

il dibattito sul nucleare è ancora vivo in europa ...soprattutto dopo il maremoto del giappone il dibattito (favoreli/contrari) sul nucleare si è rifatto forte.
in italia pure questo dibattito aveva preso inizio (ma quasi mai in modo lineare ma sempre in modo alquanto disorganizzato in tv e sui giornali) ...ma il referendum ha fatto da spartiacque chiudendo la discussione.

11-12-2011 11:30
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RE: [OT] Tea Party

http://www.ilgiornale.it/interni/peggio_...comments=1


di Marcello Veneziani - 14 dicembre 2011, 08:00


Ma se distruggiamo la politica, cosa resta a noi cittadini per contare qualcosa? Chi rappresenterà gli interessi generali e perfino i valori di parte o condivisi? Tira una brutta aria nel nostro Paese, che nasce da cause sacrosante ma rischia di produrre effetti disastrosi.

C’è voglia di far fuori la politica intera, stoccata all’ingrosso, da destra a sinistra. C’è disprezzo per la Casta, i privilegi a cui si è avvinghiata, il suo attaccamento alle poltrone, l’incapacità di ridurre costi, numeri, personale. È un disprezzo sacrosanto, ma rischia di sfociare in un rifiuto della politica e della democrazia. E dopo cosa c’è, chi viene dopo i politici? I tecnici, i professori, i colonnelli? E perché dovrebbero essere migliori dei precedenti, più disinteressati e più capaci di capire gli interessi generali e non solo quelli del loro settore di competenza, di provenienza e di dipendenza?

In questo brutto interregno che ci troviamo a vivere, sotto i bombardamenti delle Borse, mi capita a giorni alterni di dover criticare gli abusi, le sordità e le miserie della Casta e poi di dover deprecare la pulsione popolicida dei tecnici. L’uno diventa l’alibi dell’altro. Sappiamo che la politica si è arresa alla banca, la democrazia alla Borsa, e si è fatta commissariare; ma sappiamo pure che i tecnici arrivano dopo il fallimento della politica, a causa della loro pochezza unita a livore. Ed è per questo che ho personalmente accettato, con rabbia e insieme rassegnazione, l’avvento temporaneo dei tecnici, per evitare crolli e assalti all’Italia e per dare il tempo alla politica di rigenerarsi.

I tecnici hanno un compito difficile ma solo loro, si diceva, possono farlo: colpire i privilegi, tagliare i costi della politica, assumere provvedimenti impopolari. In realtà, non è così. Con la politica sono impotenti perché i tagli non saranno mai approvati dal Parlamento. Dei poteri economici sono succubi, se non addirittura emanazione e dunque non possono colpire le loro franchigie e i loro privilegi. Dunque, la loro missione è ridotta solo al punto C: picchiare sulla gente. Tanto, come dice Monti, noi non dobbiamo cercare il loro voto.

Ma con la politica si sta facendo una cosa più sporca. Non tagliano nessuno dei costi della Casta; in compenso, lasciandoli appesi ai loro soldi ma senza comando del Paese, tagliano la credibilità e le gambe alla politica. Qualcuno dei politici pensa di sopravvivere sulle spalle dei tecnici. Ma se oggi c’è un rischio di «involuzione» democratica, come si ripete spesso a sproposito, se c’è il rischio di una deriva oligarchica, beh, quel rischio non proviene da destra e nemmeno da sinistra, come non proveniva da Berlusconi. Ma è il rischio della tecnocrazia senza democrazia. I governi commissariati dalle banche, l’alta finanza, i circoli internazionali, le agenzie di rating, la Goldman Sachs: sono loro a decidere e a menare le danze. È un pericolo da non sottovalutare.

Allora io insisto: ricostruiamo la politica, rifondiamola, ripartiamo da lì. Non vogliamo una politica piccina, di piccolo cabotaggio e piccole competenze. Vogliamo una politica grande, lungimirante, in grado di rappresentare gli interessi popolari. Una politica ambiziosa, appassionata, ma non per finta. E allora i tagli che vogliamo con tutto il cuore - dimezzare il numero dei parlamentari e dei consessi regionali, dimezzare insomma i costi della politica locale e nazionale - devono essere fatti sì per dare il buon esempio, e per non far pagare solo i cittadini, e per risparmiare soldi pubblici.

Ma devono essere compiuti anche per una ragione essenziale: per salvare la politica, restituirle la sua legittimità, la sua credibilità. Dunque tagli non per rimpicciolire la politica ma per ingrandirla. Perciò io dico, cari lettori e cittadini tutti, di ogni versante politico, che dobbiamo chiedere i tagli non per tagliare la politica ma per farla crescere in altezza anziché in larghezza e obesità.

Non per rimpicciolire la politica ma per ingrandirla. Abbiamo bisogno della politica, e dobbiamo risalire la china da zero, scegliendo tra chi è zero o sottozero e chi ha un barlume di qualità. E passo dopo passo, ricostruire la credibilità di chi guida il Paese. Ai tecnici restituiamo ruoli esecutivi, la direzione del Paese va a chi si occupa di italiani, prima che di contribuenti, perché loro lo hanno eletto.

Quando passerà la burrasca, riprendiamo per esempio a pensare una repubblica presidenziale, ma vera, eletta dal popolo, decisionista e responsabile, senza presidenzialismi occulti.

Che la politica torni alla luce del sole; dove le teste di burro, come è noto, si squagliano.


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14-12-2011 10:44
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RE: [OT] Tea Party

http://www.chicago-blog.it/2011/12/18/il...more-11044

Il rimedio alla crisi? Seguire la scienza economica – di Gerardo Coco

Dati recenti dell’OCSE mostrano rallentamenti della crescita economica per tutti i 33 paesi aderenti. In particolare, le previsioni percentuali di crescita del PIL dei Paesi occidentali per il 2012 sono nell’ordine dell’uno virgola: previsioni, ottimisticamente, recessive. La realtà è che la crescita in questi paesi è negativa perché i pil non misurano l’incremento reale di prodotto ma la spesa e questa è gonfiata dall’inflazione.La diminuzione dei pil significherà aumento di disoccupazione. Anche i tassi di interesse reali sono “in rosso” il che significa che gli investitori che tengono i propri risparmi in forma liquida o parcheggiati in titoli di stato o nel mercato monetario stanno tutti perdendo soldi. Una situazione sempre più incerta e volatile blocca gli investimenti industriali. L’assenza di sviluppo e quindi di reddito significa che il servizio del debito non potrà essere pagato. In questo contesto sarà sempre più difficile per i governi ottenere dal mercato nuovi prestiti.. I governi si troveranno tra l’alternativa del default o dell’inflazionismo che non è altro che un default perseguito con altri mezzi. Perseverando nelle misure macroeconomiche, fiscali e monetarie che ai fini dello sviluppo economico non valgono un iota, i governi hanno abbracciato con cocciuta e pericolosa ottusità la teoria dell’impoverimento progressivo.

Per i governi l’economia ha sempre significato, non un sistema di produzione e di scambio per allocare risorse scarse, ma semplicemente “spesa” , soprattutto spesa statale.

A questo fine, prima hanno pensato a drenare risorse dalla collettività tramite tassazione e successivamente, non bastando questa, hanno applicato all’economia intera una gigantesca leva finanziaria. La leva è il rapporto tra debito e capitale e poiché il divisore tende allo zero, il dividendo tende all’infinito. La progressione esponenziale del debito misura il grado di distruzione dell’economia. .

Nell’opinione popolare la spesa statale originata dal debito pubblico ha la stessa natura di quella originata dal capitale cioè dal risparmio. Ma la prima rappresenta inflazione pura e dissolve come un acido il secondo. Quando la società non è più capace di creare capitale decade immediatamente.

Per scampare ad una catastrofe economica certa c’è solo un rimedio: tagliare drasticamente la spesa pubblica e azzerare le tasse su redditi e capitali e sostituirle con una tassa sui consumi. Lo sviluppo che ne conseguirebbe sarebbe sensazionale e annullerebbe il debito in pochi anni. Un sogno? No, una realtà e la storia passata e recente lo dimostra.

Tornare a David Ricardo

L’economista inglese Alfred Marshall (1842 –1924) affermò che se per assurdo andasse distrutta la ricchezza materiale del mondo, ma rimanessero invece vive le idee in base alla quali essa fu formata, si potrebbe rapidamente ricostruirla. Queste idee sono racchiuse nell’apparato analitico creato da Adam Smith e da David Ricardo più di duecento anni fa. Il primo, che impostò in un unico corpo organico i problemi che sono stati oggetto di tutta la riflessione scientifica successiva, sostenne che la libertà di mercato era la premessa per la piena utilizzazione delle forze produttive e per il loro ulteriore sviluppo perché l’intervento dei governi, raramente efficace, è quasi sempre dannoso. Ricardo, rielaborando e perfezionando le analisi di Smith mostrò come, nella distribuzione del prodotto sociale, il ruolo del capitale fosse condizionante per l’aumento di prosperità generale.

“Il capitale – scrive Ricardo – è quella parte della ricchezza di un paese che viene impiegata a scopo di produzione futura e può aumentare allo stesso modo della ricchezza” (Principles of Political Economy and Taxation). Per chiarire: la parte che viene prodotta e che non va ad aumentare il consumo finale è investimento e poiché anche l’investimento, ossia il capitale, fa parte di ciò che il sistema economico complessivamente produce, tutto ciò che promuove l’espansione del sistema, promuove anche l’accumulazione di capitale. E’ l’ammontare del capitale a determinare la capacità dell’economia di produrre beni e servizi e di impiegare lavoro ed è il rapporto tra capitale e lavoro ad aumentare la produttività.

La tassazione sul capitale mina questo processo perché trasferisce il capitale dalle mani di chi produce nelle mani di chi consuma.

Ricardo scrive:

"“Nonostante l’enorme spesa del governo inglese negli ultimi venti anni è praticamente certo che l’aumentata produzione da parte della popolazione l’abbia più che compensata. Non soltanto il capitale non è stato intaccato, ma esso è grandemente aumentato e il reddito annuale della popolazione, anche detratte le imposte, è ora probabilmente maggiore che in qualsiasi altro periodo della storia inglese… È tuttavia certo che, senza l’imposizione questo aumento di capitale sarebbe stato molto maggiore. Non vi sono imposte che non tendano a diminuire la capacità di accumulazione. Tutte le imposte ricadono o sul capitale o sul reddito. Se intaccano il capitale riducono in proporzione il fondo la cui entità determina l’entità dell’industria produttiva; se ricadono sul reddito diminuiscono l’accumulazione o costringono i contribuenti a risparmiare l’ammontare dell’imposta e a diminuire in misura corrispondente il loro precedente consumo. ..I governi dovrebbero non imporre mai tributi che gravino inevitabilmente sul capitale perché così facendo essi intaccano i fondi destinati alla sussistenza dei lavoratori e diminuiscono la produzione futura del paese”. (Ibid)

Per Ricardo la riduzione di capitale ad opera della tassazione cambia il rapporto tra capitale e lavoro, ne abbassa la produttività marginale e quindi riduce il salario reale. Un sistema fiscale volto a salvaguardare il reale interesse dei lavoratori dovrebbe tassare solo la parte di reddito che viene consumata e non quella che viene risparmiata od investita perché è questa parte a creare lo sviluppo e l’occupazione.
Grazie alla dottrina di Ricardo l’Inghilterra divenne la più grande potenza industriale.

L’economista contemporaneo Arthur Laffer, (consigliere di Ronald Reagan cui si deve la famosa “curva Laffer” che mette in relazione l’aliquota di imposta con il gettito fiscale e per la quale esiste un livello del prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente e il gettito si azzera), scrisse che le ragioni principali per cui le economie declinano sono due: una tassazione esagerata e l’instabilità monetaria e sono questi due elementi che spiegano l’ascesa ed il crollo delle nazioni. Laffer si ispirava a Ricardo per entrambi gli aspetti. Ricardo, infatti, in uno dei suoi famosi pamphlet monetari (The High Price of Bullion, a Proof of the Depreciation of Bank Notes) scrisse che le politiche monetarie espansive e gli abbassamenti dei tassi di interesse avrebbe portato i paesi alla rovina. E ce ne siamo accorti. Ma le politiche monetarie espansive sono proprio la conseguenza della elevata tassazione la quale riducendo capitale e produttività porta alla recessione cioè alla contrazione dell’economia. Allora si cerca di combatterla con stimoli monetari che secondo i geniali economisti contemporanei, dovrebbero fare le veci del capitale; a sua volta il pompaggio di liquidità, creando inflazione, mina la stabilità valutaria.

È da settant’anni che si fanno queste politiche aspettandosi risultati diversi. Ci fu tuttavia l’intermezzo degli anni 80, gli anni di Reagan di Volker e della Thatcher, gli anni dei tagli fiscali, della stabilizzazione delle valute e della ripresa economica, anche se purtroppo negli USA non furono gli anni di riduzione della spesa pubblica.

Ma è la storia del Giappone dopo la seconda guerra mondiale a rappresentare un caso di scuola del paradigma ricardiano.

A partire da 1945 i politici giapponesi capirono che per ricostruire velocemente la loro economia distrutta dal conflitto, dovevano minimizzare le tasse su investimenti e capitali. Praticamente ogni anno e fino al 1970 ridussero l’imposizione fiscale. I guadagni in conto capitale, profitti, plusvalenze, interessi e rendite furono praticamente esentati. Quando fu loro chiesto come fosse possibile “finanziare” questi tagli, risposero che proprio i tagli avrebbero permesso all’economia di crescere abbastanza per originare nel futuro maggiori entrate fiscali per rinnovare il paese. I giapponesi compresero chiaramente che tutto il capitale esentato dalle tasse sarebbe stato automaticamente reinvestito nell’economia. La domanda di lavoro e l’occupazione aumentarono anno dopo anno. Assistiti da maggior capitale i lavoratori migliorano la produttività e ottennero salari crescenti.

Fu un’ascesa impressionante accompagnata da uno sviluppo tecnologico e sociale che fece del Giappone la seconda potenza mondiale e la più grande economia esportatrice con una valuta fortissima. Non si penalizzarono gli aspetti sociali, tutt’altro, nacque infatti il concetto sociale dell’impiego permanente nelle aziende (lifetime employment), cioè il posto di lavoro assicurato. Nel decennio 1960-1970 il PIL del Giappone quintuplicò. I leader dell’epoca avevano afferrato un principio empirico importante: l’incidenza fiscale non deve mai superare il 20% del PIL. E’ la cifra limite oltre la quale un paese entra nella zona a rischio. Perché? Perché i giapponesi capirono che è praticamente il settore privato ad essere responsabile dello sviluppo economico e non lo stato. Lo stato è il servitore della collettività che rappresenta, deve fornire servizi ed incoraggiare l’economia, non strangolarla.

Ma a partire dagli anni 80 il vento cambiò. L’incidenza fiscale sul PIL salì al 40% e cominciando a manifestarsi i segni recessivi e le nuove generazioni al potere abbandonarono il modello ricardiano per impalmare quello keynesiano di spesa pubblica, di stimoli monetari con tutto quel che segue: ipertrofia burocratica, bancocentrismo, lobbismo e una corruzione senza freni. Il destino del Giappone era segnato. Accumulò il debito interno più elevato del mondo ed entrò in una recessione permanente che dura da più di vent’anni.

Potremmo continuare a parlare del miracolo economico della Germania creato dal taglio delle tasse di Ludwig Erhard o del boom economico italiano iniziato nel 1948 (ma allora c’era un altro campione del libero mercato, Luigi Einaudi) a cui seguirono quindici anni di costante e sostenuto progresso economico ad un tasso del 6% ed una stupefacente esplosione di attività imprenditoriale.

Oppure di quello del decennio dal 1990 della Corea del Sud che grazie ai tagli fiscali triplicò il PIL in piena crisi asiatica o di quello di Hong Kong dove l’incidenza fiscale sui redditi e imprese non supera il 17%.

Se un paese vuole entrare in un’era di prosperità non ha che da seguire i principi della scienza economica, non quelli della macroeconomia che affida allo stato e alla banca centrale poteri illimitati riducendo chi produce e chi crea capitale al ruolo di servo che deve fare quello che vogliono i padroni.


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Se un "non si può" nasconde un "non voglio"


di Francesco Alberoni - 19 dicembre 2011, 16:23

Due anni fa ho incominciato a lavorare a un nuovo format di fiction per la città di Milano che però si può applicare a tutte le città del mondo. È un giallo in cui non ci sono morti, non ci sono magistrati, polizia, carabinieri, l’Fbi e il problema o il pericolo vengono risolti non con la violenza, ma con l’intelligenza, l’intuizione e l’abilità. Avevo definito con cura i criteri da seguire per stendere le storie e ho chiesto di collaborare a sceneggiatori, registi, giallisti, scrittori di ogni genere.

Tutti hanno provato ma ciascuno cambiava le regole, inseriva nuovi personaggi, insomma voleva fare un’opera originale mentre io invece insistevo perché rispettassero le regole del format. E poiché protestavo mi rispondevano «tu chiedi una cosa impossibile, non si può». Allora ho trovato gente nuova, più fresca, più umile e oggi ho 24 bellissime storie armonizzate fra di loro. Non è vero che non si poteva, si poteva benissimo. Il «non si può» nascondeva il «non voglio» o il «non sono capace». Non è la prima volta che arrivo a questa conclusione.

Sarà capitato a tutti di avere un superiore, un dirigente, un funzionario che, per prima cosa, vi risponde: «non si può» in modo autoritario, inappellabile, con ragioni tecniche di fronte alle quali vi sentite disarmati. Il medico vi guarda con compatimento. L’ingegnere vi fa sentire un uomo dell’età della pietra. Il politico vi spiega che l’opposizione lo rende impossibile. Il finanziere vi dimostra che l’affare è sballato. Il burocrate elenca regolamenti insuperabili. Il giurista vi annienta con citazioni di leggi. E invece quella cosa si poteva invece benissimo fare.

Bastava trovare una soluzione nuova, intelligente. Ma chi dice di no non fa lo sforzo di cercarla. Non vuol cambiare, non vuol fare fatica, non vuol pensare e sperimentare il nuovo. Ma chi dice sempre di no, lo fa anche per conservare ed affermare il suo potere.

Quando un uomo di mediocre intelligenza e fondamentalmente privo di fantasia, raggiunge una posizione di potere come fa a conservarla?

Circondandosi di persone che gli ubbidiscono prontamente, e creando ostacoli per impedire ai potenziali concorrenti di emergere, di acquistare visibilità e credito.

Il mediocre, di fronte all’inventore, al creatore, è smarrito, ha paura.

Non capisce la sua proposta, il suo progetto, ma oscuramente sente che, se glielo fa realizzare le cose cambieranno e il suo tranquillo e sonnolento dominio verrà turbato. «Quieta non movere» dice l'antico motto latino. Tradotto in italiano, «non si può».



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La proposta del Pdl: elezione diretta del capo dello Stato Cosa ne pensi? Di' la tua

di Sergio Rame - 21 dicembre 2011, 15:51

Elezione diretta del capo dello Stato e governo semipresidenziale alla francese. In questa direzione va la proposta di legge costituzionale firmata da centoventidue deputati del Pdl per introdurre lielezione a suffragio universale diretto del presidente della Repubblica.

"La necessità di una decisiva revisione dell'impalcatura dei poteri disegnata dalla Carta del 1948, in particolare del presidente della repubblica e del presidente del Consiglio, si impone ormai con forza e con urgenza improcrastinabile". Inizia così la proposta di legge pubblicata oggi integralmente dal Foglio: "Quello che abbiamo di fronte è un grave fenomeno di scissione tra potere e responsabilità politica che caratterizza la nostra Costituzione, in contrasto con il principio non scritto del costituzionalismo liberale secondo il quale essi devono sempre andare di conserva". D'altra parte il governo del presidente è già nei fatti: l'operazione di Giorgio Napolitano per scalzare Silvio Berlusconi e mandare a Palazzo Chigi Mario Monti l'ha sancito. Adesso la politica dovrebbe dargli valore costituzionale. La scelta che propongono i 122 deputati del Pdl è semplice: o il parlamento attribuisce al premier quel corredo di poteri già previsti nelle maggiori democrazie dell'Eurozona oppure l'unica soluzione è adottare il sistema presidenziale o semipresidenziale. "E' in gioco il principio della sovranità popolare sancito dall'articolo 1 della Costituzione in quanto le stesse elezioni politiche rischiano un drastico ridimensionamento della loro fondamentale funzione", ha spiegato Giuseppe Calderisi sul Foglio. Non è, infatti, unmistero il fatto che l'ordinario funzionamento della democrazia parlamentare può essere messo in crisi da una qualsiasi minoranza interna alla maggioranza.

Secondo Calderisi, l'attuale sistema vigente in Italia dà troppo potere agli alleati minori della coalizione e ai gruppi interni generando "comportamenti opportunistici nella speranza di massimizzare le proprie rendite politiche". Non solo. C'è anche il rischio - è il ragionamento del deputato del Pdl - di indebolire la capacità del governo che, "sempre esposto al potere di interdizione e di ricatto di gruppi interni alla maggioranza, rischia di rimanere in vita in condizioni di precarietà numerica e politica". Da qui la proposta, sottoscritta da esponenti come Antonio Martino, Paolo Romani, Maria Stella Gelmini, Elio Vito, Giorgia Meloni, e Osvaldo Napoli, per rivedere la Carta.

L'introduzione della forma di governo semipresidenziale sul modello francese non richiederebbe una revisione costituzionale particolarmente complessa. Partendo dal testo proposto dal relatore Salvi alla commissione per le Riforme istituzionali presieduta da Massimo D'Alema, Calderisi propone di allineare il mandato del capo dello Stato alla durata delle Camere, di attribuire all'inquilino del Colle la presidenza del Consiglio e il diritto di sciogliere le Camere. Questa, in sintesi, la proposta di legge costituzionale che potrebbe far uscire il sistema parlamentare italiano dal pantano.


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Ci serve autorità per essere liberi


di Marcello Veneziani - 27 dicembre 2011, 09:46

E se il deficit maggiore nella società del nostro tempo fosse l’Autorità? Impronunciabile parola ormai da troppi decenni, ci assoggettiamo senza critiche solo ai comandi impersonali del mercato, della Borsa, della tecnica, del progresso.

O accettiamo poteri e strapoteri in loro servizio, ma guai a sentir parlare di autorità. L’autoritàscontaundiscreditostagionato. Nel dopoguerra perché odorava ancora di fascismo e di antidemocrazia. Nel ’68 perché era la bestia nera della liberazione giovanile, femminile, proletaria. Nei socialismi, sovietici e liberali, perché considerata da ambedue nemica giurata dell’egualitarismo. Nelle società liberali e permissive perché vista come l’antagonista funesto della libertà. La principale carenza dei governi Berlusconi non è stata certo la deriva autoritaria, come spesso si è ripetuto, ma al contrario, l’assenza di un principio di autorità e di autorevolezza, la ricerca di compiacere gli italiani, di allentare le regole e di assecondarli, rinunciando a priori a ogni tentativo di correlare educazione e libertà.

Se la modernità sorge sulla fratellanza, l’uguaglianza e la libertà, l’autorità fu ritenuta uno sfregio a tutte e tre; perché l’autorità non è fraterna, semmai paterna, o al limite materna; non indica uguaglianza, semmai promuove differenza e gerarchia; e non è considerata amica della libertà, ma il suo inevitabile rovescio. Oppressiva in pubblico, repressiva in privato, l’autorità è stata l’innominabile belva della nostra epoca.

Per riammettere una sua vaga parente, si è preferito ribattezzarla in Italiacolpiùrassicurante termine di authority , anglosassone e americano, tollerata perché «di servizio», a tutela delle regole. O dissimulata nell’invocazione diffusa della leadership. E invece l’autorità ci manca, eccome se ci manca.

È uscito di recente un saggio di Alexandre Kojève, La nozione di autorità (Adelphi, pagg. 143, euro 29) che risale al 1942 ma che fu pubblicato postumo pochi anni fa- il filosofo morì nel 1968 - e ora tradotto in Italia. Un saggio scritto all’ombra di Vichy, con un’appendice che riguarda il regime di Pétain, con curiosi riconoscimenti al Maresciallo collaborazionista, provenienti da uno che lottò contro l’occupazionenazista.

Proprioneimesi precedenti, Kojève indirizzava a Stalin un altro suo saggio filosofico. Incroci pericolosi. Kojève classifica quattro tipi originari di autorità - del Padre, del Signore sul servo, del Capo e del Giudice- e ad essi fa risalire tutte le forme di autorità. In realtà altre fonti di autorità ci sembrano irriducibili a quelle indicate dal filosofo russo: l’autorità fondata sul carisma spirituale-religioso o sul ruolo di pontifex , l’autorità fondata sulla sapienza e sul ruolo di magister, e l’autorità fondata sull’opera o l’impresa e sul ruolo di artifex. Autorità di derivazione diversa. Kojève distingue tra l’autorità trasmessa per nomina, per elezione e per eredità. L’autorità può discendere anche dal divino: per Kojève «è divino tutto ciò che può agire su di me senza che io abbia la possibilità di reagire nei suoi confronti». Originale e dinamica la sua idea di autorità,perché per lui l’autorità non garantisce la stabilità e lo status quo , come diffusamente si ritiene, ma il mutamento e il movimento: «l’autorità appartiene a chi opera il cambiamento». Emerge qualche assonanza col decisionismo di Schmitt: «Sovrano è colui che decide in stato di eccezione». Un’idea dell’autorità dopo la modernità, che non riposa sul sacro e immobile universo degli enti eterni e immutabili.

L’autorità è un bisogno vitale di ogni società, non solo per garantire l’ordine e la tradizione, ma anche per governare il cambiamento e cavalcare la tigre della trasformazione. Quando manca una norma e una tradizione a cui attenersi, là insorge il bisogno di un’autorità che colmi quel deficit con la sua autorevolezza.

L’autorità è un onere prima di essere un onore, è una responsabilità e non un privilegio. Solitamente è un argine contro gli abusi, le violenze e le ingiustizie; solo degenerando diventa essa stessa abuso, violenza e ingiustizia. Allora sorge l’autoritarismo, dove il rapporto costitutivo dell’autorità si capovolge:non è l’autorevolezza a decretare il potere, ma il potere a decretare l’autorevolezza. La superiorità, da causa diventa effetto. Ma il poteresenzaautoritàèabuso, la forza senza autoritàèprevaricazione, ilcomando senza autorità è sopraffazione. Perché l’autorità è una legittimazione sul campo, fondata sul merito e il talento, la cultura e la capacità, la competenza e l’esperienza, e nei livelli più alti il carisma e la sapienza.


Non è un bisogno di chi la esercita, ma di chi la segue.

Quando diciamo che mancano le guide o gli educatori, i modelli e i punti di riferimento, le classi dirigenti o le vere élite , parafrasiamo il bisogno di autorità. Urge l’ auctor , in ogni campo. Visibile, credibile, affidabile. È l’autorità che distingue una classe dirigente da una classe dominante, per usare due categorie gramsciane. Ma l’autorità è pure ciò che distingue un leader da un esecutore ( oggi diremmo un tecnico). Perché il tecnico è esperto di mezzi, autorità è invece chi sa commisurare i mezzi ai fini. Tecnologico uno, teleologica l’altra.

L’autorità garantisce la libertà, sorveglia i propri confini che le permettono di esprimersi e fluire, senzadisperdersi, esondare o capovolgersi nel suo contrario. La libertà ha bisogno dell’autorità e viceversa. La negazione dell’una o dell’altra o la coincidenza dell’una nell’altra segna la fine di una civiltà. E tutti coloro che le hanno teorizzate, se non si sono perduti in forme utopiche o anarchiche, hanno promosso, avallato o abbracciato soluzioni dispotiche e liberticide.

Oggi tutti parlano della libertà, ma chi osa evocare l’autorità e ricercarne gli uomini, i segni e i ruoli? Che sia questo il compito di questi anni e, in Italia, di questa delicata fase di transizione cieca? Facile l’obiezione:chi sono,dove sono,le forme e le élite in grado di incarnare l’autorità? Certo che non si vedono, ma intanto aprite le porte, intanto cercate, scrutate, riconoscete...


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