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[OT] Attualità e Cultura
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Il collasso del sistema
Il fondo per l'occupazione del contratto dei bancari: ecco l'ultima illusione sindacale

di John Galt 30 Gennaio 2012

Il fondo per la buona e stabile occupazione previsto dal recente contratto collettivo nazionale dei bancari rappresenta un ulteriore passo nella direzione del collasso del sistema. L’impianto concordato è semplice: l’esproprio forzoso di quote retributive dei dipendenti del settore diviene combustibile per la promessa di nuove assunzioni a stipendio ridotto (ed a tempo indeterminato) in quella medesima industria. Alla base del patto, la solita, banale algebra di Sherwood (togliere a qualcuno per dare ad altri) ricoperta da uno spesso strato di opacissima vernice morale.

È un giochino che funziona sempre e che, soprattutto, garantisce invidiabili rendite di posizione alle forze che se ne fanno promotrici.
Che emolumenti creino emolumenti non sorprende: è fisiologia in un sistema di divisione del lavoro. Ciò che infastidisce è l’ennesimo attentato alla possibilità di ciascuno di indirizzare in libertà, tramite le proprie scelte di acquisto, la domanda di nuova occupazione.

Ovviamente, trasformare le richieste di soddisfazione (per loro natura capricciose) di alcuni in lavoro per altri richiede quelle rare doti imprenditoriali che da mai impreziosiscono gli scarni curricula dei sindacalisti e dei politici nazionali. Al contrario, questi ultimi sono riconosciuti esperti nell’arte facile che diremmo della irresponsabile cialtroneria del redistribuire (e non a caso, "quote" è da sempre mantra intoccabile del discorso pubblico italiano).

Incapaci, certo, i nostri rappresentanti, ma anche parecchio fortunati. Un paio di pesanti fattori culturali li soccorrono, infatti, con sconsolante costanza: il riflesso antico dell’invidia sociale e quello, più recente, della superstizione keynesiana. Già, perché gli imprenditori tendono ad arricchirsi e questo non è certo equo. E poi c’è il fatto, insidiosissimo, che le autonome determinazioni di spesa sono a rischio risparmio e quest’ultimo, come ben sa chi ha studiato la buona economia, nega il consumo e porta depressione. Dunque, secondo il pregiudizio più diffuso, meglio che sia il centro (sindacati compresi) a decidere il come ed il dove dell’allocazione della ricchezza, ché il mercato non può certo offrire credibile alternativa, se l’obiettivo è un’etica circolazione del danaro.
Ed un deciso rinforzino nella direzione descritta è giunto, pochi giorni fa, da una autorevolissima fonte. In ispirata risposta a quelle che avevano tutta l’aria di essere banali dichiarazioni di circostanza, formulate nel corso di una cerimonia ufficiale, il supremo Colle ci ha fatto sapere che il lavoro non può essere un privilegio. Un dire all’apparenza ovvio, nel quale, però, abbiamo percepito come un sinistro sibilar di sciabola.

Già ci era noto, infatti, che l’ermeneutica comunista considera da sempre il privilegio come sordido attributo del capitale e giusta causa di conflitto. Non ci aspettavamo, però, che pure il lavoro, vessillo degli ignudi, potesse nascondere un’anima così nera. Questo ci dà un pochino da pensare, perché, nel disfunzionale immaginario cresciuto rigoglioso all’ombra del mito della lotta di classe, il privilegio va perseguito e smembrato, per così dire, fino all’equità.

Ed è proprio a questo punto che ci pare data la stura ai peggiori incubi sindacali di riproporzionalizzazione, come usa affermarsi nel burocratese algebrico degli illuminati, i quali fingono da sempre di poter raddoppiare il cento dividendolo per mille.
Ecco allora che parte di quel che Mario guadagna viene dato in salario a Giorgio che così potrà diventare, per inconfutabile matematica, collega di Mario nel presepe in costruzione. Epperò, se la regina delle scienze avalla solidale l’operazione, non altrettanto è disposta a fare la Fisica, notoriamente meno esatta, ma, ahinoi, con i piedi ben piantati a terra.

Già, perché tutto può darsi a questo mondo, tranne la violazione del secondo, cocciutissimo principio della termodinamica. Fuor di metafora, non esiste che Mario stipendia Giorgio che stipendia Mario: da qualche parte l’energia del sistema si perde ed i suoi elementi vanno incontro ad inesorabile impoverimento. Anzi, per essere ancora più aderenti al vero (anche se meno fedeli a Carnot), potremmo concludere dicendo che, in questo tipo di esperimenti, tendono spesso a materializzarsi sinistre pattuglie di cinesi intenzionati a comprarsi tutto.

Ma pure di fronte all’evidenza di pistoni e vapori, il sindacalista collettivo finge di non vedere e spinge per stipare più profughi in scialuppe già precarie, incoraggiato, in questo, da schiere di facili opinionisti, sempre proni al bavaglio del bene e del giusto. Ed il quadro ci si presenta ancora più fosco quando ci capita di leggere che il settore del quale stiamo dicendo e che si vuole trasformare in gigantesco ufficio di collocamento, lamenta, oramai da tempo, abbondanza di esuberi, oltre ad essere vittima della scoperta arroganza di burocrazie autoreferenziali.

Ci viene pure il dubbio che, con il miraggio di stipendi da fame, sarà difficile assistere a duelli epici tra i cervelli più promettenti per guadagnarsi la qualifica di lavoratore del credito. In scenari di crescente concorrenza internazionale, ciò potrebbe rendere arduo scommettere sui campioni nazionali del dare a prestito.

Ma chissenefrega, penseranno i paladini degli ultimi, adesso che la strada del prelievo forzoso è aperta, altre risorse potranno venire da futuri, eticissimi assalti ai colpevoli privilegiati di Nottingham. Perché di colline da trasformare in praterie l’orizzonte è generoso.

Tutto ciò ci pare ancora più paradossale se confrontato con l’euforia liberalizzatrice attualmente così di moda. A quel che ci risulta, infatti, liberalizzare significa, più o meno, mettere le persone in condizione di ottenere la massima utilità dal proprio reddito.

Tra l’altro, una fonte assai sobria ed apprezzata ha da poco dichiarato la scarsa concorrenza essere tassazione implicita. E noi, naturalmente, ci crediamo. Ma che differenza può esserci tra il prelievo del tassinaro nel portafoglio di tutti e l’attingere della triplice da quello dei bancari? Ad essere sinceri, entrambe le modalità paiono parimenti disinteressate al livello di soddisfazione dei malcapitati.

Non abbiamo remore a confessarlo: anche questo dubbio ci ha dato da pensare. Ma poi, guidati dal sicuro operato degli illuminati, ci è risultato evidente il baratro che passa tra le due forme: da una parte l’illecito guadagno dei soliti quattro evasori a distorcere i giusti meccanismi del mercato, dall’altra l’agire sapiente del sindacato a raddrizzare i perversi meccanismi del mercato. Curioso.

Ed insomma, ancora una volta, la confusione ci pare massima e lo scivolo sempre più inclinato. Riordinando il tavolo, ci fermiamo un istante a guardare sullo schermo la foto di un giovane e sorridente Mises, prelevata da chissà quale filesystem perso nella rete. In silenzio, scuotiamo la testa sconsolati.


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L'era glaciale del governo Monti


di Marcello Veneziani - 12 febbraio 2012, 10:00

Sarà una coincidenza, ma da quando c’è Monti i tg sono dei bollettini sul maltempo. Con i tecnici al governo la politica cede il posto al meteo.

Come nei tg sovietici non ci sono più conflitti o notizie ma solo neve e soccorsi, mucche assiderate e impianti a gas, più marchettoni a Monti e al sistema montuoso (30 e loden).

Prima della neve, c’erano solo navi e terremoti. Mezzo tg ogni giorno fa terrorismo atmosferico sulla tormenta che verrà e poi mostra paesini innevati e soccorsi anche banali: vedi perfino uno che porta la carta igienica alla casa innevata, il nonno al cellulare che rassicura i parenti, i giornalisti sanbernardo col collare audio.

Col Frigor Montis scende un’onda di gelo sul Paese, divenuto nel frattempo con lui a nostra insaputa superpotenza mondiale. Il colorito paesaggio italiano sparisce e tutto assume la monotona uniformità del bianco governo dei tecnici. Ci siamo allineati agli standard nordeuropei sin nel barometro: si è ridotto lo spread tra il clima tedesco e il nostro.

Chi muore per il gelo se lo merita, è uno sfigato. Ti congeli se stai fisso in un posto, senza mobilità. Ibernata la politica, il conflitto si sposta sulle previsioni del tempo e i partiti si dividono in moderati che sconsigliano di uscire ed estremisti che istigano all’uso di catene. I sindaci sono giudicati su base atmosferica, se sono da neve o da spiaggia, se sono insipidi o hanno sale in strada e si dividono in fattivi, piangenti, teatranti e dispersi, come nella ritirata di Russia. L’estate berlusconiana dista un’era geologica.


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Mamma Rai ci tassa per vedere Sanremo Pagheremo il canone sui pc dell’ufficio


Roma - Un bel balzello fresco fresco, aggiornato al 1938, per scucire dalle imprese italiane i soldi per il cachet di Celentano, per la farfallina e il minislip di Belèn e tutto il resto del carrozzone Rai. C’è anche questa sorpresina per le aziende che in questi giorni stanno ricevendo a pioggia, senza tante distinzioni, una letterina dalla Direzione abbonamenti della Rai.
Celentano sul palco dell'AristonIngrandisci immagineGli chiedono il canone, e fin qui sarebbe anche normale. Il problema è che la Rai lo chiede anche alle imprese che non hanno una tv in ufficio ma solo i computer per lavorare. Perché? Perché la legge, attuale ma risalente a un Regio decreto di 74 anni fa, dice che la tassa più odiata d’Italia la deve pagare «chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione dei programmi televisivi».

Quindi non solo un televisore, ma anche un computer, un semplice monitor, un telefono cellulare, un I-Pad, un decoder, e secondo certe interpretazioni persino un videocitofono, una videocamera, un macchina fotografica digitale, una telecamera per videosorveglianza!

Questo vale sia per le famiglie, a cui arriva la domanda per il «canone ordinario», sia per le aziende, a cui mandano la richiesta per il «canone speciale», perché si suppone abbiano «apparecchi atti alla ricezione di programmi tv in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dall’ambito familiare». Nelle lettere che abbiamo potuto leggere è scritto chiaro e tondo dalla Rai: «La informiamo che le vigenti disposizioni normative impongono l’obbligo del pagamento di un abbonamento speciale a chiunque detenga uno più apparecchi atti od adattabili (...) compresi computer collegati alla rete, indipendentemente dall’uso al quale gli
stessi vengono adibiti».
Quindi se una ditta ha anche un solo computer per tenere la contabilità, deve pagare il canone Rai. La mazzata complessiva, come denuncia Rete Imprese Italia (Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti, Cna, Casartigiani), è di 980 milioni di euro sulle imprese, con richieste che variano dai 200 euro ai 6mila euro l’anno, a seconda della tipologia di impresa. Nessuna esclusa, perché l’invio è automatico. Così si è ritrovata la cartellina di pagamento Rai anche una ditta che fa autotrasporto, in provincia di Pistoia, e che difficilmente userà i pc per vedersi Celentano. Stessa cosa per un imprenditore di Vittorio Veneto, titolare di un’azienda di logistica, che avendo dei computer nell’ufficio dovrebbe pagare a Lorenza Lei e Paolo Garimberti 401 euro. «Facciamo già fatica a competere sul libero mercato, ci mancava pure questa spesa in più che, ci informa la Rai, è deducibile dal reddito di impresa... prendono pure per i fondelli! - ci scrive l’imprenditore - Non è che questa tassa serve alla Rai per coprire i buchi di bilancio e le cavolate tipo il mega contratto a Celentano?». E fino a qualche anno fa la richiesta di pagamento veniva spedita anche a rivenditori e riparatori di tv, che la tv ce l’hanno in negozio per evidenti motivi.
Hanno dovuto attendere un contenzioso poi risolto nel 2003 per essere esentati dall’assurda gabella. Ma gli altri imprenditori che non smerciano tv no, loro la devono pagare.

Fabio Banti, presidente di Confartigianato Toscana, sta raccogliendo le firme per contestare formalmente alla Rai la legittimità del canone richiesto. «Abbiamo appena chiesto al ministro Passera di aiutare le piccole imprese che ogni giorno devono fronteggiare la crisi nerissima e riceviamo la richiesta del pagamento del canone Rai, una sorta di tassa sulle tecnologie. La misura è colma». In breve, la Rai tenta di risolvere il problema dell’evasione del canone (800milioni di mancato introito l’anno, 96% di esercizi pubblici che non lo paga) chiedendolo a tutti indiscriminatamente, anche a chi non ha la tv, poiché le procedure sanzionatorie sono difficili da applicare e dunque spara nel mucchio. Una tattica che può ottenere un risultato: far salire oltre il 45% (fonte Codacons) la percentuale di italiani che la considera una tassa ingiusta.


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I sindacati e l'abbuffata dei corsi di formazione


Stefano Filippi - 20 febbraio 2012, 08:22

Dovrebbe essere il grimaldello per riprendere tanti posti di lavoro, l’arma anti-precari, l’alternativa alla cassa integrazione. Invece è uno scandalo nazionale. La formazione professionale è un business che procura una montagna di soldi ai professionisti dei corsi e una valanga di delusioni ai disoccupati.

Assenza di controlli, truffe, avidità degli organizzatori - tra cui primeggiano i sindacati e le associazioni di categoria, difensori più di se stessi che dei lavoratori – spesso vanificano l’utilità dei corsi.

UN FIUME DI DENARO
Il denaro arriva soprattutto dal Fondo sociale europeo. Secondo l’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) le risorse complessive disponibili ammontano a 1,6 miliardi di euro l’anno: ai finanziamenti Fse si aggiungono stanziamenti ministeriali (Welfare e Istruzione), regionali e dei Fondi interprofessionali alimentati dal prelievo obbligatorio dello 0,30 per cento sui salari.
È una delle spese più basse d’Europa: la Germania investe quattro volte di più, la Spagna tre. La torta potrebbe però presto aumentare con circa 8 miliardi di euro oggi usati per la cassa integrazione. Nella riforma dell’articolo 18, infatti, il ministro Elsa Fornero ipotizza di ridurre gli ammortizzatori sociali a favore della riqualificazione professionale. È la filosofia della «flexsecurity»: ti licenzio ma ti aiuto a trovare un diverso impiego.

IL LAVORO CHE C’È
I corsi di formazione dovrebbero dunque adeguare i disoccupati alle nuove esigenze del mercato del lavoro. Le forme sono molteplici: orientamento, tirocinio, apprendistato, consulenza, borse di lavoro. Una ricerca dell’Isfol presentata lo scorso novembre mostra la crescita delle professioni elementari e la stagnazione di quelle molto specializzate. Il lavoro non mancherebbe, secondo le statistiche. Unioncamere calcola che nel 2011 sono rimasti vacanti quasi 120mila posti per la mancanza di professionalità adeguate: commessi, camerieri, operatori informatici, contabili, elettricisti, ma anche operai specializzati, infermieri, autisti di pullman, fornai.

Tra gennaio 2010 e giugno 2011 (dati Isfol) sono state erogate 95mila ore di formazione continua con il coinvolgimento di 61mila imprese e quasi due milioni di frequentanti. Nell’ambito dell’istruzione professionale scolastica, secondo il Rapporto 2010 elaborato dalla Fondazione per la Sussidiarietà, il 30 per cento di chi ha conseguito una qualifica trova lavoro entro un mese, il 31 per cento entro sei mesi mentre un quinto resta disoccupato.

IL CAOS NELLE REGIONI
Ma i dati nazionali rappresentano una media che non trova riscontro effettivo nella realtà. La formazione professionale compete alle regioni. E sono elevatissime le disparità. A cominciare dalla quantità di soldi spesi: in testa si trova l’Emilia Romagna con 395,5 milioni di euro; in coda soltanto regioni del Sud. Nel triangolo Lombardia-Veneto-Emilia molte realtà formative funzionano, altrove è una giungla.
Prendiamo il caso Sicilia, regione con un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale. La Corte dei conti ha quantificato in 1,9 miliardi di euro i fondi Fse riversati nell’isola dal 2003 al 2010, cui si aggiungono altre decine di milioni per finanziare gli uffici pubblici per l’impiego. Soldi che sono andati a sovvenzionare l’esercito di 400 enti accreditati e i loro 7.300 stipendiati. Per ogni corso di formazione ha infatti trovato un posto soltanto un disoccupato e mezzo.
«L’effettivo avviamento al lavoro di un giovane siciliano costa ai contribuenti 72mila euro», ha detto il procuratore della Corte dei conti. I formatori non risolvono i problemi di occupazione altrui, ma i propri sì. E il 60 per cento delle assunzioni come addetti alla formazione (metà docenti, metà impiegati) è avvenuto dal 2000 in poi, con picchi nel 2006 e 2008, alla vigilia delle elezioni.

UN BUSINESS PER I SINDACATI
Le lezioni sono organizzate da una miriade di realtà: in primo luogo i sindacati e le associazioni di categoria, e poi enti locali, professionisti, consulenti, enti legati a partiti politici. Non c’è un programma preciso né uno svolgimento standard; possono durare da 10-20 ore fino a 300-400. A volte i corsi prevedono sussidi mensili per gli iscritti, trasformandosi così in potenti macchine di consenso, e non garantiscono sbocchi. Non c’è un dato sintetico nazionale che indichi quanti corsisti riconquistino effettivamente un posto. In Veneto, una delle regioni più efficienti, trova lavoro subito soltanto un quarto dei neolaureati che hanno frequentato i master di Confindustria Venezia (il 47 per cento entro un anno). Sarà per questa sfiducia che a Treviso vanno deserti 40 posti su 100 per l’aggiornamento professionale offerti gratis da Unindustria ai lavoratori in mobilità.

Verifiche e rendiconti spesso sono obblighi non rispettati. Molte regioni non sono nemmeno in grado di valutare la qualità dei training e stabilire se i corsi si siano davvero svolti; ma i professionisti della formazione sono comunque abilissimi nell’accaparrarsi i fondi. Nel marzo 2010 la provincia di Firenze lanciò una gara da tre milioni e mezzo di euro per erogare circa tremila «voucher lavorativi». Di colpo in ognuna delle nove zone in cui era stato suddiviso il territorio nacque una cordata condotta da agenzie di formazione riconducibili a sindacati e categorie: a Firenze centro la Confesercenti, a Firenze nord la Cna, nel Mugello la Cgil, nel Chianti la Uil, eccetera. Nessuna sovrapposizione, nessuna concorrenza, secondo una regìa collaudata che tiene lontani i privati. Gli organizzatori avrebbero incamerato fino al 50 per cento delle somme disponibili, come rivelò l’assessore alla Formazione, Rosa Maria Di Giorgi. La Cna fiorentina specificò di trattenere «solo» il 25 per cento.
I tribunali di tutta Italia sono pieni di fascicoli su truffe, vere o presunte, sulla formazione professionale. Centinaia di migliaia di euro pubblici arraffati per istituire fantomatici corsi che non si sono svolti o non hanno prodotto lavoro. Tangenti per dimenticare «stage» inesistenti ma regolarmente finanziati. Amministratori pubblici, funzionari, imprenditori che intascano i fondi per il collocamento dei disabili. Nel 2011 la Guardia di finanza ha denunciato frodi con finanziamenti comunitari per 250 milioni di euro.
Negli ultimi mesi le cose stanno cambiando. La scure dei tagli falcidia anche la formazione professionale e le regioni sono in grave ritardo nei pagamenti. Diminuiscono i fondi strutturali e quindi anche i bandi. A breve arriverà in Italia un’altra task force di Bruxelles per scongelare le risorse del Fse 2007-13 non ancora spese. Ed entro aprile bisognerà definire la riforma dell’apprendistato con le intese collettive per ciascun settore. Tagli, lentezze e incertezze minano l’intero sistema della formazione: gli sprechi ma anche i casi di sostegno reale a chi cerca lavoro.


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I pazienti "dimenticati" all'ex clinica Santa Rita: morti senza un funerale


Maria Sorbi - 20 febbraio 2012, 14:54

Muoiono in ospedale, magari dopo lunghi ricoveri. E nessuno chiede di loro, nessun parente si fa vivo per organizzare il funerale. Accade all’istituto Città Studi, l’ex clinica Santa Rita, dove in obitorio i corpi restano parcheggiati giorni e giorni.
"In qualche caso anche per alcuni mesi", spiega il direttore sanitario Pasquale Ferrante. Uno dei casi più clamorosi è quello di un paziente macedone, il cui corpo è rimasto nelle celle frigorifere per ben sette mese. Tanto ci è voluto per rintracciare la famiglia del defunto. "Il consolato macedone – spiega il direttore – è a Venezia e ci abbiamo messo parecchio tempo prima di avere notizie dei parenti di quel povero uomo".

In altri casi è lo stesso ospedale che decide di sobbarcarsi le spese del funerale: poco tempo fa è capitato con un clochard, deceduto in ospedale e rimasto in obitorio per due settimane. Dopo di che la clinica Città Studi si è offerta di provvedere alle spese di trasporto e il Comune di residenza del senza tetto, proveniente dalla provincia di Pavia, ha pensato alla sepoltura e a tutto il resto. "E’ ovvio tuttavia – aggiunge Ferrante – che non possiamo sostenere le spese in tutti i casi. Finché è per una volta, non c’è nessun problema, ma altrimenti diventa difficile". Nel caso in cui la persona deceduta appartenga a una famiglia in difficoltà economiche, allora è il Comune che paga tutto: dalla bara al loculo. Ma tante volte è difficile rintracciare un qualsiasi pro zio o lontano cugino e così l’obitorio diventa un cimitero di nessuno, dove i corpi vengono dimenticati e lasciati lì, con un codice per identificarli.

Anche in pronto soccorso si fa qualche eccezione alle regole e i medici chiudono un occhio con i barboni che si piazzano nella sala d’attesa. "Spesso sono persone ben vestite e distinte – racconta il direttore – ma si capisce che non hanno una casa. Vengono in pronto soccorso perché hanno bisogno di assistenza. O semplicemente per stare al caldo e poter usare i bagni". I medici lasciano che i clochard si lavino e capita spesso che offrano qualche tè caldo o qualche merendina delle macchinette automatiche. "Attualmente il nostro pronto soccorso – racconta il direttore – è frequentato da otto persone senza fissa dimora. Di giorno stanno in giro, poi tornano, poi spariscono, poi si ripresentano. Alcuni hanno problemi di alcolismo, altri sono semplicemente i clochard di questa zona". Aiutarli davvero è difficile: non si lasciano avvicinare, non accettano vestiti né si fanno accompagnare nei dormitori pubblici. I dottori e gli infermieri hanno adottato la strategia del "far finta di niente e lascia fare". E così non dicono nulla se vedono un clochard entrare in bagno. Magari, di soppiatto, gli fanno pure trovare un po' di sapone, senza essere invadenti, con discrezione.


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Cose non dette sui cento giorni di Monti & C.


Alessandro Sallusti - 25 febbraio 2012, 08:19

Le celebrazioni per i primi cento giorni del governo Monti hanno raggiunto l’apice. All’unisono, stampa e tv raccontano le meraviglie di un Paese cambiato.
Sappiamo che il premier ha il sostegno sincero e leale dell’ex premier Berlusconi che volontariamente gli ha lasciato il posto. E sappiamo che Monti gode anche di stima di una larga fetta di notabili ed elettori del Pdl ai quali non dispiacerebbe averlo come nuovo leader. Tutto questo ci è chiaro, ma non per questo dobbiamo nascondere sotto lo zerbino alcune verità. Per esempio.

Durante i mirabolanti cento giorni l’Italia è entrata tecnicamente in recessione, la disoccupazione è cresciuta, quella giovanile ha superato la soglia del 30 per cento, le agenzie internazionali ci hanno declassato e spediti addirittura in serie B. Ancora. Le tasse sono aumentate raggiungendo un nuovo record di pressione fiscale, la benzina sfiora i due euro al litro, le liberalizzazioni, quelle vere, non ci sono e non ci saranno. La Rai è diventata un pollaio fuori controllo, la Protezione civile un buco nero. Lo spread è sceso ma resta a livelli che quattro mesi fa venivano giudicati insostenibili e pericolosi.

Tutto questo è accaduto in presenza di una maggioranza politica innaturale e bulgara, di un Parlamento commissariato dal presidente della Repubblica, di un governo che va avanti a colpi di decreti-legge e voti di fiducia.

Insomma, ci mancava soltanto che in una situazione di potere così unica e forse irripetibile non tornasse almeno un po’ difiducia, che peraltro è gratis, nell’esecutivo. Ma onestamente, non vediamo proprio che cosa ci sia da gioire o celebrare. Il miracolo, annunciato e atteso, non c’è stato e non poteva esserci. Perché con le regole blindate dalla nostra Costituzione neppure il governo dei migliori, o come in questo caso dei non eletti, della non casta, è in grado di liberare il Paese dalle incrostazioni.

E per cambiare la Costituzione, che ci piaccia o no, c’è una sola strada: ridare parola e potere alla politica. I cento giorni sono quindi sì importanti ma nel senso che sono cento giorni in meno che mancano alle elezioni. Nel frattempo sono certo che il governo Monti farà cose apprezzabili e tutti gliene saremo grati. Se poi strada facendo ci portiamo avanti con qualche riforma che vada oltrel’allargamento della base di taxisti e farmacisti, be’, credo che la cosa non guasterebbe. Il Parlamento, se volesse, ne avrebbe facoltà.


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Falso allarme: ecco le bugie sullo spread Conto di 5 miliardi e tutti per colpa dell'Ue

di Renato Brunetta - 27 febbraio 2012, 08:15

Quando la situazione si fa calda, bisogna tenere la testa fredda. Analizzando l’andamento degli spread sui titoli a 10 anni dei Paesi della zona euro e calcolati rispetto ai Bund, abbiamo capito alcune cose banali, ma fondamentali.

1.L’inizio della bufera è il Consiglio Europeo del 23- 24 giugno, con andamenti e picchi sincronizzati con le principali (non) decisioni europee, in particolare sulla Grecia.

2. La tempesta degli spread registra la stessa intensità in tutti i Paesi, con differenze di impatto legate alle situazioni interne, in particolare le dimensioni dei debiti sovrani.

3. Se lo spread è tradizionalmente considerato come la misura del rischio Paese, tuttavia esso, in questa congiuntura europea, prescinde in gran parte dai fondamentali delle singole economie nazionali. E questo è un paradosso ancora inspiegato. Ne è un esempio l’Italia, che, nonostante l’avanzo primario, l’assenzadi una bolla immobiliare, il settore bancario solido e il basso indebitamento delle famiglie, ha avuto spread peggiori di quelli della Spagna, che non presenta i nostri fattori «di tenuta», ma solo un debito pubblico più basso. 4.Non sorprende,allora,che nelle aspettative degli investitori, contino relativamente poco le misure nazionali di politica economica, le manovre correttive, che pur dando segnali forti sul miglioramento dei conti, finiscono per avere effetti depressivi, causando peggioramenti delle aspettative dei mercati e dei relativi rating . Dunque, politiche economiche virtuose, rigorose e restrittive paradossalmente finiscono per influenzare in senso negativo gli spread nel breve periodo.

5. Al contrario, ciò che ha determinato le maggiori oscillazioni e i principali picchi degli spread , in tutti i Paesi nel periodo di massima volatilità, sono stati fattori esogeni,legati all’impotenza Ue contro la crisi. Un’analisi del diagramma degli spread , confrontato con le date dei vertici europei, fino all’Eurogruppo del 20 febbraio, che finalmente ha varato un pacchetto (insufficiente) di aiuti per la Grecia, lo dimostra in maniera disarmante.

6. Quel che sembra contare di più nell’andamento degli spread , sono credibili strategie di lungo periodo, tanto dell’Ue quanto dei singoli Stati. Questo spiega la parabola dei Bonos spagnoli, che si sono calmierati dopo la più corretta strategia di lungo termine: elezioni e riforme del nuovo governo.

Fin qui i fatti. Ma a questo punto una domanda sorge spontanea: quanto ci è costata l’impotenza dell’Europa nell’affrontare la crisi? In termini economici una cifra certamenteragguardevolema, edèquesta la cosa più sconvolgente, del tutto sostenibile. Confrontando, infatti, il totale titoli pubblici, di ogni categoria e durata, emessi nel 2011 (421miliardi), aunrendimentomedio ponderato del 3,61% (media che comprende la prima fase virtuosa, fino a giugno, e la seconda parte febbrile), con il totale titoli emessi nel 2010 (467 miliardi), a un rendimento medio ponderato del 2,10% (dati Mef), emerge che il servizio del debito nel 2011 è costato 15 miliardi a fronte di un costo di 10 miliardi nel 2010. Una differenza di oneri per lo Stato di 5 miliardi per un periodo medio di 6-7 anni.

Focalizzando l’analisi sulle emissioni di Btp a 10 anni, quelli su cui è stata maggiormente catalizzata l’attenzione dell’opinione pubblica, i maggiori oneri per le finanze pubbliche derivanti dai titoli emessi nel 2011 rispetto agli oneri derivanti dai titoli del 2010 ammontano a 221 milioni di euro per un periodo di 10 anni. Cifra ragguardevole, ma del tutto sostenibile.

Dal punto di vista della nostra politica economica, la tempesta degli spread ci è costata almeno due manovre aggiuntive. Modello: sangue, sudore e lacrime. Quella di agosto, con effetto cumulato di 64 miliardi,tesa all’anticipo del pareggio di bilancio nel 2013, e quella di dicembre, con effetto cumulato di 63 miliardi, correttiva dei conti pubblici a seguito del peggioramento della congiuntura economica. Le due manovre, che hanno innescato un processo recessivo, ci porteranno nel 2012 a una minor crescita del Pil tra il -1,5% e il -2%, di un punto peggiore rispetto alla recessione prevista per l’area euro nel 2012 (-0,3%). Per non parlare della caduta di un governo democraticamente eletto dal popolo.

Ultima annotazione: in Italia la bufera è stata gestita in maniera ineccepibile dal punto di vista tecnico da parte del dipartimento del Tesoro - direzione Debito Pubblico - che ha utilizzato tutti gli strumenti a disposizione: programmazione dei quantitativi delle emissioni, riacquisti di titoli sul mercato, con cambi tesi a ritirare bond in scadenza difficili da rimborsare ed emetterne nuovi a più lunga durata. Non altrettanto si può dire della gestione politica del ministro competente, che si è lasciato travolgere dalla bolla mediatica negativa sul Paese, sull’economia, sui conti pubblici senza opporre resistenza e senza informare governo e Paese del reale andamento della crisi, certamente grave ma anche, soprattutto, certamente sostenibile.

Pure in ragione del fatto che il governo Berlusconi aveva fatto manovre correttive per 265 miliardi cumulati al 2014, con pareggio di bilancio nel 2013 e avanzo primario del 5%. Sarebbe sciocco supporre che vi sia stato un concerto dei mercati per danneggiare l’Italia, e il suo legittimo governo, ma è sciocco anche sostenere che l’esecutivo in quel momento in carica non abbia fatto il dovuto. Ha mancato, invece, di prontezza e lucidità politica, tardando ad avvertire il Paese su caratteristiche e origini della crisi, non fronteggiabile con misure penitenziali interne e non riducibile se non in sede europea. Tale ritardo è una colpa, che origina da una precisa mancanza del ministro dell’Economia, che o non ha colto la natura di quel che accadeva o ha supposto di dominarla per trarne vantaggio. I risultati si sono visti. La conclusione che si può trarre dall’analisi a posteriori di quanto è accaduto nel 2011 è che gli errori e le incertezze della governance europea, e la debolezza e incertezza italiana nelle trattative in sede europea, con la conseguente percezione di confusione e instabilità trasmessa ai mercati, hanno determinato probabilmente un effetto di overshooting nelle correzioni di bilancio, sia rispetto all’obiettivo di compensazione del maggior onere per interessi sia rispetto all’obiettivo di graduale azzeramento del deficit . La necessità di correggere le percezioni negative dei mercati sulla situazione della nostra finanza pubblica hanno portato, in altri termini, a sovradimensionare l’entità delle manovre rispetto alla misura ottimale, che è quella che non compromette l’obiettivo aumentando il grado di rischio derivante dalla riduzione del tasso di crescita atteso.


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Con le sue gaffe alla Camera ora Gnudi è l'idolo del web
Esilarante audizione: l’algido manager titolare del Turismo pare uno scolaro agitato. E lo sbobinato fa il giro della rete


di Paola Setti - 02 marzo 2012, 09:30

Fra la via Emilia e iluest, così la direbbe lui, ecco a voi Piero Gnudi, un presente da bi-ministro al Turismo e agli Affari regionali, un passato fra Cda, giunte direttive, comitati esecutivi e presidenze di tutto o quasi da Confindustria a Unicredit a Enel, un futuro assicurato nel mega studio da commercialista che mantiene nella sua Bologna, ma soprattutto sul web, professione «cult».

Poi dice che Radio Radicale non serve. Ascoltare, per ricredersi, la registrazione dell’intervento di Gnudi alla Camera, davanti alla X Commissione come davanti alla X Mas. C’è persino un blogger, Luciano Arduino, che quei 46 minuti e 51 secondi se li è sbobinati per trasmetterli ai naviganti e ai posteri, linkando a contorno il Walter Chiari di Vieni avanti cretino.

Con quella zeta a forma di esse, Gnudi pare un incrocio fra Vasco Rossi e Bersani. Quanto a strafalcioni e gaffe senza soluzione di continuità, riporta alla memoria le interviste impossibili di Mai dire gol a calciatori e allenatori. Ora in rete c’è chi si domanda se avesse il febbrone, in effetti ha tossito parecchio, oppure se l’algido dirigente d’azienda del governo degli imperturbabili (Fornero permettendo), si sia emozionato. Per cominciare si mangia l’«in» e rigurgita un «nanzi tutto» che non fa ben sperare, visto che quella di deglutire la prima o l’ultima sillaba è un vizio che non perde mai: il braccio è «perativo», lo standard diventa standa, il mestiere si ferma a mestie. E poi il volume che non è d’affari ma «da fare», fino al rebus del cambio di sillaba, col capitale che diventa capitano, speriamo che nel cambio sia rimasto umano.

Lo sbobinato letterale somiglia a certe traduzioni automatiche dall’inglese all’italiano sul web: «Il ministro D’Urso ehm Urso che... Eh eh che color segrestata a Shanghai come na volta. Te lo ricordi?». Eh? Ma anche: «Cioè noi bisogna far si che l’Enit diventi il braccio perativo di tutte le regioni. Perché neh e e e in cui le regioni li si riconooscono ci mettono tramente anche delle risoorse ...e e riusciamo a fare anco una un una ... una stratte una tratteggia che vada bene per l’intero paese». Pausa. «...effff»... «... l’ideale noi l’stiamo portando avanti e già e già cred cre già aaah in gi in giro per il parlamento n progetto in legge, per in alcune paarti in alcuni paaesi unificare e eh quello che non ovc chemava it coll’eeeenit».

Una deputata interrompe: «Scusi, non ho capito», ma nessuno ridacchia più da quando il presidente ha zittito il vociare: «Se dovete parlare d’altro uscite». La deputata domanda se abbia capito bene, che il ministro pensa di accorpare Ice e Enit, ed ecco la risposta: «No, no no... lei sa che se è una proposta di legge per ricostruire ce metterlo assieme all’ambasciata, la proposta che ho fatto io che in in alcune sedi di ambasciaata dove c’è l’Iiice di mettere dentro acun dipendente di Enit che faccia promozione turistica». Boh, vabbè.

Comunque il concetto chiave, circa-più-o-meno-quasi, è che il turismo mondiale cresce e quello italiano invece no, e sì che «tutti i paesi europei hanno calato», ma qui peggio. Con l’aggravante che noi i turisti spesso li trattiamo male, senza pensare che «una volta se uno andava ristorante mangiava male lo diceva a quattro cinque persone ed era morta li. Adesso col social network lo sanno tutti», e «ci vogliono sette giudizi positivi per bilanciare un giudizio negativo». Quindi, urge campagna di «educazione», «per spiegare che quando vediamo un turista non lo dobbiamo trattare come a volte purtroppo facciamo come uno che magari che ti occupa il posto o ti infastidisce, ma come uno che ti sta portando del denaro». E poi, signori, l’unità nazionale è importante: «Le stelle devono essere uguali dal Trentino alla Sicilia».

E basta promozioni regione per regione, è il prodotto Italia che va pubblicizzato: «La pubblicità del Metaponto in Cina: non so se i cinesi sanno dov’è il Metaponto».

Alla fine non c’è più tempo per le domande dei deputati, Gnudi ha appuntamento con Monti alle tre, «quindi alle tre meno 2 devo andare». A manca 5 lo liberano, ma lui promette di ritornare la settimana prossima. Coca cola e pop corn per godersi lo spettacolo.


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Tassano la birra per non ridurre la spesa pubblica


di Nicola Porro - 07 marzo 2012, 08:00

Quando una piccola impresa vede ridursi il proprio reddito si arrangia. Riduce innanzitutto le spese e poi si «sbatte» in tutti i modi per lavorare di più.


La più grande impresa del Paese, cioè lo Stato, che impiega 3,6 milioni di dipendenti e ha ricavi per 771 miliardi di euro l’anno (le nostre tasse) ragiona diversamente. Fa una legge e per decreto aumenta i ricavi, cioè le nostre tasse. Se la vita economica fosse così facile avremmo risolto i problemi del mondo. Stiamo forse banalizzando? Ma va là. Sentite questa. Ieri in Parlamento hanno deciso di stabilizzare 10mila dipendenti della pubblica istruzione, poi, in serata, sono tornati indietro e hanno bocciato la norma: niente assunzioni. Sventata la follia, ma non il principio che la stava ispirando. Bisognava trovare il denaro per stabilizzare quei 10 mila professori. Già, come? Cercando nelle pieghe dei ministeri? Riducendo gli sprechi?

Combattendo l’assenteismo? Ma figurarsi. È bastato toccare una piccola tassa sugli alcolici e la birra. L’equazione è presto fatta: più istruzione meno alcol. E tutti a brindare alla nuova e progressiva norma. Tutte balle. Ma ben confezionate.

Il fatto che questa volta il colpo di mano sia stato sventato, non cancella il problema. Anzi. Abbiamo costruito 1.900 miliardi di euro di debito pubblico proprio su micro manovre di questo genere. La faccia tosta dei nostri politici non ha limiti. Il governo è riuscito ad aumentare le imposte locali retroattivamente, negli ultimi decenni (compresi Berlusconi e Monti) si sono toccate le accise sulla benzina fino a portarla a due euro al litro. E ora anche la birra.
Gli italiani hanno dato l’impressione di poter sopportare qualsiasi supplizio fiscale. Crediamo che oggi non sia più così. In queste ore in cui si discute di una norma costituzionale che imponga il pareggio di bilancio pubblico, riteniamo che sia un falso obiettivo. Il problema non è pensare di trovare grazie alla birra le risorse per assumere 10mila dipendenti pubblici (principio del pareggio di bilancio), ma è ridurre i dipendenti pubblici e non toccare le accise (principio della riduzione della spesa pubblica).

E per questa via ridurre le imposte. In Costituzione si dovrebbe piuttosto inserire una norma vincolante sulla percentuale totale di reddito che si può sottrarre agli italiani. Oggi lo Stato preleva il 44% della nostra ricchezza. In un Paese libero non dovrebbe superare il 30 per cento. Altro che imposte sulla birra.
Ps. Le accise su benzina e birra e le addizionali Irpef locali sono decisamente regressive. E cioè colpiscono in maniera maggiore le fasce di reddito più basse.


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Nel burrone ma con tanti elogi


di Marcello Veneziani - 08 marzo 2012, 10:51


Mai così alto il prezzo della benzina, mai così alte le tasse sulla casa, mai così alta la disoccupazione e la cassa integrazione, mai così alto il prezzo della verdura...

Mi fermo al carciofo per non infierire, ma potrei continuare a lungo. Poi vedo il governo Monti e sento solo elogi sperticati. Istituzioni, Quirinale, Parlamento, Partiti- eccetto pochi- Poteri Sparsi, Media... Bravo, bis.

Stiamo vivendo il Miracolo Italiano, abbiamo un governo favoloso, ce lo invidiano tutti, anzi Monti salverà l’Europa intera, dice Time , e poi penserà al pianeta e alle galassie...

Per carità, non voglio rovesciare la frittata e attribuire a 110 giorni e lode di governo Monti tutta questa ecatombe; però trovo perlomeno stridente la situazione drammatica senza precedenti del nostro Paese e l’entusiasmo senza precedenti per il tecno-governo in carica. E continuo, come un bambino dell’asilo, a non capire perché- senza che sia accaduto nessun evento traumatico, una guerra, un’invasione degli alieni, un cataclisma - da un giorno all’altro, una situazione di debiti stratificata da decenni sia esplosa con questa drammatica urgenza.

Ho l’impressione che qualcosa di enorme ci sfugga, qualcosa di non detto o solo misteriosamente alluso.Un’omertà euromafiosa, una camorra globale e indecifrata ha improvvisamente decretato questo Allarme Generale con Mazzate. E più sprofondiamo nella melma, nome gentile ma assonante, e più siamo costretti a cantare in gita distruzione (senza apostrofo) verso il burrone: battiam battiam le mani evviva il Professor.


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